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Perchè le banche non finanzieranno la ripresa

Gli istituti europei ed italiani in particolare continuano a presentare uno squilibrio tra prestiti e depositi che impedirà loro di sostenere in modo cospicuo una ripresa dell’attività economica nel 2013.
A cura di Luca Spoldi
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Parigi, convegno organizzato dal ministero dell'Economia francese

Non fatevi distrarre dalle dichiarazioni di politici, banchieri ed economisti da salotto: il primo problema dell’economia europea resta quello di trovare il modo di riassorbire gli oltre 25,9 milioni di uomini e donne (dei quali oltre 18,7 milioni sono cittadini dell’area dell’euro) che secondo Eurostat a fine ottobre risultavano senza lavoro (2,16 milioni in più di un anno prima) e dare a chi il lavoro ce l’ha, ma solo in forme precarie, senza prospettiva futura, a rischio di stress e in qualche caso anche peggio, una prospettiva degna  di tale nome. Visto che di talenti l’Italia continua a essere ricca, a dispetto dei mille vincoli che incombono sulle imprese private, e che di soldi ce ne sarebbero se fossero ben utilizzati, vien da pensare che il peggio possa e debba essere alle spalle, visto che gli spread tra i titoli del debito pubblico italiano e quelli tedeschi si stanno riducendo, come ha ricordato con un certo orgoglio stamane il premier Mario Monti, in conferenza stampa da Lione assieme al presidente francese Francoise Hollande.

E invece no: se sperate che a finanziare la ripresa possano essere le banche, magari attingendo agli oltre mille miliardi di liquidità fornita a basso costo (1% fisso annuo per tre anni) dalla Bce con le due Ltro del dicembre 2011 e del febbraio scorso, vuol dire che non volete vedere la realtà. Una realtà che non piace molto neppure a politici e tecnici ma che gli analisti di Morgan Stanley hanno spiegato benissimo nel loro “Outlook 2013” per il settore creditizio europeo, il cui succo è: sono ancora troppe le divergenze esistenti tra le banche del Nord (che probabilmente già dal primo trimestre del prossimo anno inizieranno a rimborsare decine di miliardi di euro di finanziamenti alla stessa Bce, perché ormai possono rifornirsi direttamente sui mercati ad un costo più che competitivo) e del Sud Europa (in particolare di Spagna e Italia, ancora strettamente dipendenti dalla liquidità fornita da Mario Draghi e pertanto non in grado di effettuare alcun rimborso anticipato).

La politica di austerity seguita dalla Ue, spiegano gli esperti nel report, “è alla base della nostra convinzione che anche nel 2013 la crescita resterà debole”. Tuttavia questo non è l’unico motivo dello scetticismo degli analisti riguardo alla crescita: “Sia l’offerta sia la domanda di credito del settore privato nella zona euro resta tiepida, portando a una crescita del credito sottotono con l’aggiunta di ulteriori venti contrari alle prospettive di crescita” del vecchio continente. Secondo gli uomini della banca americana gli europei “sobbalzano ogni giorno per i titoli sul male prodotto dal debito” e non sembrano per nulla intenzionati “a chiedere a prestito ulteriore denaro, nonostante i tassi bassi”. Insomma, quello con cui si confronta l’Europa sarebbe “un problema di domanda del credito almeno quanto di disponibilità a concedere prestiti”.

Un cane che si morde la coda, in fondo: se le prospettive di crescita, complice l’austerity, sono deboli le banche concedono prestiti mal volentieri, anche perché ne hanno concessi troppi in passato, le famiglie e le imprese sono restie a indebitarsi ulteriormente nonostante i tassi bassi e preferiscono semmai rimborsare debiti pregressi e pagare le tasse, i consumi languono, il risparmio pure. Se così stanno le cose è sempre più probabile, avvertono gli esperti americani, che le banche europee seguano un percorso simile al “decennio perduto giapponese”, che “non fu forse il più favorevole allo sviluppo economico”, ma fu “credit-friendly” poiché le imprese “divennero più caute e avverse al rischio. La mancanza di domanda tenne bassa sia la crescita sia l’inflazione, guidando i flussi (di investimento, ndr) verso il reddito fisso”.

In questo quadro in Giapponeil deleveraging del settore privato – aggiungono gli analisti – ha significato una minore offerta di bond, in coincidenza con questi (maggiori) flussi. E’ così seguito un calo degli spread, nonostante un prolungato periodo di crescita modesta”. Ma quanto tempo ci vorrà e fino a che punto proseguirà la stretta sul credito? Il Giappone attualmente vede una leva finanziaria media (data dal rapporto presiti/depositi) che dai picchi del 130% toccati nel 1993 a si è ridotta al 75% circa, in Europa il picco è stato toccato a fine 2008 attorno al 140% ed attualmente siamo ancora oltre il 120%, per cui potrebbe essere necessario andare avanti sino al 2018 circa prima di vedere la leva stabilizzarsi attorno all’80%.

E le banche italiane? Se vi ricordate ho dato qualche numero qualche tempo fa: dalle ultime trimestrali è apparso che a parte Intesa Sanpaolo e Banco Popolare, entrambi con una leva “lorda” inferiore al 101%, Bpm starebbe sopra il 140%, Unicredit appare ancora sopra il 133%, Ubi Banca dichiara un rapporto impieghi/raccolta diretta da clientela ordinaria pari al 117% (al 95% se si considera la raccolta complessiva), Mps sembrerebbe essere attorno al 107%, Bper a poco più del 105%. Comunque la si giudichi e senza bisogno di dietrologie e teorie complottiste, o di gridare allo scandalo perché la crisi “farebbe” bene solo alla Germania (ipotesi che non è del tutto priva di un’evidenza empirica, ma additare ad altri colpe nostre non porterà a soluzione alcuna della crisi, checché ne possano pensare ex inquilini di Palazzo Chigi o di Via XX Settembre), la ripresa economica rischia di non trovare alcuna sponda dal mondo bancario europeo ed italiano in particolare, con buona pace di chi vede continuamente la “luce in fondo al tunnel”. Le banche hanno prestato troppo e troppo male in passato (tanto che sono prevedibili ulteriori incrementi delle sofferenze e conseguenti perdite sui crediti pregressi che manterranno meno solidi di quanto sarebbe auspicabile i bilanci di molti dei dei maggiori istituti italiani) per poter sperare che tornino a prestare su livelli analoghi nei prossimi trimestri, sempre ammesso che famiglie e imprese tornino a fidarsi al punto da volersi nuovamente indebitare.

Eppure una soluzione è possibile e la indicano anche gli uomini di Morgan Stanley stigmatizzando il “divario del costo dell’indebitamento tra l’Europa “core” e la periferia” che continua a presentare “una notevole differenza”. Questo è ciò a cui fa riferimento la Bce, secondo gli esperti, quando parla di “frammentazione finanziaria” dei mercati europei. “Le differenti condizioni a cui si presta in tutta la zona euro esercitano un costo economico da danno dei paesi più deboli e sconvolgono l’unicità della politica monetaria”. Per questo gli uomini di Morgan Stanley pensano “che la Bce agirà in modo più aggressivo per affrontare questo nel prossimo anno e crediamo che i suoi sforzi possono essere aiutati dal restringimento dei differenziali di crescita tra la periferia (europea, ndr) e il G10 che i nostri economisti si aspettano per l’anno venturo”. Insomma: la ripresa, anche per l’Italia, dipende per ora più da come riuscirà ad agire Mario Draghi che non da Mario Monti o da chi spera di prenderne il posto dalla prossima primavera. Speriamo bene.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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