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Opinioni
L'attacco della Turchia in Siria contro i curdi

Chi è Erdogan, il “Sultano” di Ankara che ha invaso la Siria e guarda alla Libia

Venditore di focacce da bambino, ex calciatore, politico islamico nella Turchia laica. Erdogan è un leader polemico, criticato per i suoi modi autoritari. Sindaco di Istanbul, tre volte primo ministro e infine presidente della repubblica con pieni poteri. Sopravvissuto al colpo di Stato del 2016, da 30 anni è protagonista della scena politica. Ecco chi il “Sultano” di Ankara che ha invaso il nord-est della Siria ed esteso la sfera di influenza turca in Libia.
A cura di Mirko Bellis
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Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan (Gettyimages)
Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan (Gettyimages)
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Recep Tayyip Erdogan, 65 anni, sposato e padre di 4 figli, politico islamico-conservatore, sindaco di Istanbul, tre volte primo ministro, al secondo mandato come presidente della Turchia. Per i suoi sostenitori ha rilanciato l’economia del Paese. Per i critici, invece, sarebbe un pericoloso autoritario che minaccia la laicità dello Stato. Il 9 ottobre 2019 ha inviato il suo esercito ad invadere il nord-est della Siria scatenando un’ondata di proteste in tutto il mondo. La Turchia, inoltre, è protagonista anche in altri scacchieri internazionali: il 2 gennaio 2020, il parlamento di Ankara ha approvato l'invio di truppe in Libia a fianco del governo di Tripoli, impegnato nella lotta contro il generale Haftar. Chi è quindi Erdogan, il “Sultano” da 30 anni al vertice della politica turca?

L’infanzia di Erdogan: venditore di focacce per strada con la passione del calcio

Erdogan ha militato per anni in squadre di calcio semi-professionale
Erdogan ha militato per anni in squadre di calcio semi-professionale

Erdogan nasce il 26 febbraio 1954 ad Istanbul, nel quartiere popolare di Kasımpasa. La sua è una famiglia umile, originaria di Rize, sulla sponda sud del Mar Nero. Nella città natale, che lo vedrà un giorno diventare sindaco, inizia a lavorare quando è alle ancora alle elementari. Per contribuire all'economia familiare, scende in strada a vendere simit, la tipica focaccia turca ricoperta di sesamo. Il padre, un ufficiale della Guardia costiera, lo manda a studiare in un liceo religioso dove il giovane Erdogan comincia a distinguersi come difensore dell'Islam politico. Una posizione rischiosa nella Turchia fondata da Kemal Atatürk, che ha tra i suoi pilastri proprio la laicità dello Stato.

Nel 1960, l’esercito, a cui la Costituzione affida il ruolo di garante della laicità della Turchia, inaugura la stagione dei colpi di Stato (da allora ce ne saranno altri 4, di cui l’ultimo nel luglio 2016 per cercare di rovesciare proprio Erdogan). I militari accusano il governo del Partito democratico di corruzione e dispotismo, ma anche di essere troppo accondiscendente verso la religione musulmana. Tanto basta perché il primo ministro Adnan Menderes, e altre importanti figure del suo esecutivo, finiscano impiccati. E' in questo contesto in cui maturano le convinzioni politiche di Erdogan.

La sua militanza comincia a 15 anni quando partecipa alle prime manifestazioni dell'Unione nazionale degli studenti turchi, organizzazione in cui presto passa a ricoprire ruoli di responsabilità. In questo periodo conoscerà il suo mentore, Necmettin Erbakan, fondatore del partito Partito dell'Ordine Nazionale (Mnp), contrario alla laicità, anti-comunista e avversario dell'occidentalizzazione della Turchia. Sono gli stessi ideali abbracciati anche da Erdogan. Dopo solo 15 mesi di vita, l'Mnp è sciolto da un altro colpo di Stato, quello del 1971. Ma ormai l'ideologia nazional-islamista comincia a farsi strada.

Il futuro presidente della Turchia da giovane è stato anche un calciatore. Negli anni del liceo è soprannominato dai suoi compagni di squadra “Imam Beckenbauer”, come il famoso giocatore tedesco. Una passione che lo accompagnerà per anni e che lo vedrà impegnato in varie squadre a livello semi-professionale.

Sindaco di Istanbul e primo ministro

Erdogan (a sinistra), proclama la vittoria del suo partito (Akp) alle elezioni del 3 novembre 2002 (Gettyimages)
Erdogan (a sinistra), proclama la vittoria del suo partito (Akp) alle elezioni del 3 novembre 2002 (Gettyimages)

Dopo il colpo di Stato del 1980, Erdogan, laureatosi nel frattempo alla facoltà di economia e scienze amministrative dell'Università di Marmara, si allontana dall'agone politico. Ci ritorna nel 1983 con un'altra formazione islamista, il Partito del Benessere (Refah Partisi, Rp). Nel 1989 viene candidato per la prima volta a sindaco di Istanbul. Non viene eletto, nonostante il discreto risultato elettorale. Dovrà aspettare il 1994 per diventare primo cittadino con un successo inaspettato. Una delle sue misure da sindaco è la proibizione della vendita di alcolici nei caffè della città, destando le prime preoccupazioni negli ambienti laici.

Nelle elezioni generali del 1995, l'Rp è il primo partito e la coalizione di governo nomina Erdogan primo ministro, carica che ricoprirà per tre volte nell'arco della sua lunga carriera politica.

In carcere per incitamento all'odio religioso

Erdogan all'uscita dal processo che lo condanna a 10 mesi di carcere per incitamento all'odio religioso (Reuters)
Erdogan all'uscita dal processo che lo condanna a 10 mesi di carcere per incitamento all'odio religioso (Reuters)

Erdogan ha conosciuto anche il carcere. Il 28 febbraio 1997, l'esercito interviene un'altra volta con un ultimatum al governo. L'Rp viene messo fuori legge e inizia un periodo di repressione contro gli islamisti. Nel dicembre dello stesso anno, in un meeting politico, Erdogan legge una poesia di Ziya Gökalp che afferma: “Le moschee sono le nostre caserme. I minareti sono le nostre baionette. Le cupole sono i nostri elmetti. I fedeli sono i nostri soldati”. Gli costerà una condanna a 10 mesi di carcere e l'interdizione dai pubblici uffici per aver incitato all'odio religioso. Sconterà solo 4 mesi di prigione. Uscito dal carcere, fonda il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp), di ispirazione islamista con una visione moderata. Pur vincendo le seguenti elezioni, Erdogan diventa di nuovo primo ministro solo nel 2003, al termine dell'interdizione prevista dalla sua condanna. L'Akp dominerà la politica turca fin dal 2002, arrivando a quasi il 50% del consenso popolare nelle elezioni del 2011.

Islamizzazione della Turchia

Un gruppo di sostenitrici di Erdogan durante un meeting del presidente turco ad Ankara in occasione delle elezioni a marzo 2019 (Gettyimages)
Un gruppo di sostenitrici di Erdogan durante un meeting del presidente turco ad Ankara in occasione delle elezioni a marzo 2019 (Gettyimages)

Con l’avvento al potere, Erdogan avvia una progressiva islamizzazione della Turchia. Nel 2008, il suo partito approva in parlamento un emendamento che rimuove il divieto di indossare il velo nelle università e nei luoghi pubblici. Viene reintrodotto il reato di blasfemia. È proibito il consumo di alcol. L’apparato burocratico è infarcito di nuovi elementi più fedeli all'ideologia islamista. Anche la riforma dell'istruzione del 2012 va in questa direzione e i programmi delle scuole pubbliche cominciano a cambiare con l'introduzione di lezioni sulla “storia del Profeta Maometto” o sul Corano. Infine l'esercito, da sempre visto da Erdogan come un avversario. È esteso il controllo del parlamento sui militari e si permette ai tribunali civili di giudicare i soldati. Il fallito golpe del 15 luglio 2016 sarà anche l'occasione per eliminare, con delle vere e proprie purghe, quei militari ritenuti troppo critici o pericolosi per il nuovo “Sultano” di Ankara. Tutte queste misure saranno criticate da dissidenti e oppositori che vedono il governo sempre più orientato a reintrodurre i valori islamici nella politica e nella società turca.

Le proteste di piazza Taksim, il pugno duro di Erdogan

La polizia spara gas lacrimogeni ai manifestanti radunati in piazza Taksim di Istanbul nel 2013
La polizia spara gas lacrimogeni ai manifestanti radunati in piazza Taksim di Istanbul nel 2013

Nel maggio 2013, la demolizione a Istanbul del parco di Gezi nella piazza Taksim, per far posto ad un centro commerciale, scatena le proteste degli ambientalisti. Le manifestazioni ben presto assumono un carattere antigovernativo. Erdogan, di fronte al rifiuto dei dimostranti di abbandonare la piazza, autorizza la polizia ad usare il pugno duro: per disperdere la folla radunata nel centro di Istanbul verranno usati gas lacrimogeni, spray al peperoncino, cannoni ad acqua, cariche e persino munizioni vere. Le accuse di brutalità e uso eccessivo della forza piovono sul governo turco. Ad Erdogan, tuttavia, sembra non importare di essere considerato un leader autoritario. Nel frattempo, le manifestazioni si estendono dalla capitale al resto della Turchia. A luglio di quello stesso anno, il bilancio sarà di 22 morti e oltre ottomila feriti. Decine di migliaia gli arrestati. Il “Sultano” inizia anche ad imporre limiti alla libertà di riunione, di stampa e di parola. Offendere Erdogan può costare il carcere: dal 2014, quasi 2mila persone sono arrestate con l'accusa di vilipendio al capo dello Stato.

La questione curda

Sostenitori del partito Democratico dei Popoli (formazione filo-curda e di sinistra) con il ritratto del leader del Pkk, Abdullah Öcalan (Gettyimages)
Sostenitori del partito Democratico dei Popoli (formazione filo-curda e di sinistra) con il ritratto del leader del Pkk, Abdullah Öcalan (Gettyimages)

Dai primi anni ’80 del secolo scorso, si stima che il conflitto tra Ankara e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) abbia provocato la morte di circa 40mila persone. Nel 2013, il leader del Pkk, Abdullah Öcalan, annuncia dal carcere la fine della lotta armata e il governo turco avvia un processo di pacificazione. La guerra in Siria, però, darà il colpo di grazia alla possibile risoluzione della questione curda. Esercito e polizia turca, infatti, riprendono la repressione. Cizre, in particolare, finisce sotto assedio nel 2015 provocando le critiche del Consiglio europeo per l’uso sproporzionato della forza contro i civili.

Da luglio 2015, il conflitto tra le forze di sicurezza turche e il Pkk – considerato un'organizzazione terroristica anche da Washington e Unione Europea – ha causato oltre 4.600 vittime in Turchia e nel nord dell'Iraq. Più della metà sono militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan.

Il golpe militare del 2016: Erdogan presidente “con pieni poteri”

Manifestazione a favore di Erdogan ad Istanbul dopo il fallito golpe del luglio 2016 (Gettyimages)
Manifestazione a favore di Erdogan ad Istanbul dopo il fallito golpe del luglio 2016 (Gettyimages)

Nel 2007, il Capo di Stato della Turchia è eletto per la prima volta dal popolo e non dal parlamento. Nel 2014 Erdogan si candida e vince. Il ruolo che gli riconosce la Costituzione però gli va stretto: il presidente della repubblica, infatti, ha un ruolo per lo più formale e non è dotato di veri poteri. Tutti gli sforzi di riforma del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo trovano la ferma opposizione del parlamento. La grande occasione arriva con il golpe militare del 15 luglio 2016. Il tentativo di rovesciare Erdogan con la forza fallisce e darà il via ad autentica “caccia alle streghe”. Migliaia di soldati, ufficiali di polizia, insegnanti, giudici e funzionari sono cacciati dai loro posti di lavoro e finiscono in carcere per la loro presunta collaborazione con il colpo di Stato. A pagare l'ira di Erdogan sarà anche la libertà di stampa: diversi quotidiani sono chiusi e i giornalisti scomodi sono arrestati.

E' in questo scenario che nell'aprile del 2017 si svolge un controverso referendum costituzionale. Con un piccolo margine è approvata l’abolizione della figura del primo ministro e il passaggio dei poteri esecutivi al presidente. Un'altra vittoria per Erdogan, nonostante le critiche dell'opposizione che denuncia brogli elettorali. Il 24 giugno 2018 alle elezioni presidenziali, Erdogan ottiene il suo secondo mandato come presidente. Dopo il suo insediamento il 9 luglio, assume poteri allargati per cui la Turchia ha di fatto modificato il suo sistema da parlamentare a presidenziale.

Ottobre 2019: la Turchia dà avvio all'invasione del nord-est della Siria

Colonne di fumo si alzano da Ras al-Ain, città siriana lungo la frontiera turca, dopo l'attacco dell'esercito di Ankara e delle milizie sue alleate (Gettyimages)
Colonne di fumo si alzano da Ras al-Ain, città siriana lungo la frontiera turca, dopo l'attacco dell'esercito di Ankara e delle milizie sue alleate (Gettyimages)

Il 2019 vede l’economia della Turchia in crisi. La Lira turca si svaluta, con l’inflazione stabile al 18%. Non va certo meglio sul fronte del lavoro dove il tasso di disoccupazione raggiunge quasi il 14%, il peggior dato dal 2005. Anche sul piano politico il partito di Erdogan, nonostante abbia vinto le elezioni locali del 31 marzo scorso, perde grandi città come Istanbul, Ankara, Izmir, Antalya, Adana e Diyarbakir. La ripetizione delle consultazioni in seguito al ricorso presentato dall'Akp non porta i risultati sperati. Anzi, Ekrem Imamoglu, il candidato sindaco del Partito Popolare Repubblicano (Chp), ottiene un successo ancora maggiore della prima tornata. Un clima di malcontento, infine, pervade una parte dell'opinione pubblica che comincia a non gradire più la presenza di 3,6 milioni di rifugiati siriani ospitati in Turchia. È in questo quadro che si inserisce l'Operazione “Primavera di Pace, l'offensiva dell'esercito turco contro i combattenti curdi dell'Ypg nel nord-est della Siria. Un intervento militare che, in poco più di una settimana, ha provocato quasi 200mila sfollati e la morte di centinaia di civili.

Ambizioni geopolitiche senza limiti: Erdogan protagonista anche in Libia

Il presidente turco Erdogan con il suo omologo russo Vladimir Putin durante il vertice celebrato a Istanbul l'8 gennaio 2020 (Gettyimages)
Il presidente turco Erdogan con il suo omologo russo Vladimir Putin durante il vertice celebrato a Istanbul l'8 gennaio 2020 (Gettyimages)

Gli obiettivi geopolitici di Erdogan non conoscono limiti e la Turchia interviene anche nella crisi libica, che vede contrapposti da una parte il Governo di Accordo Nazionale (Gna) di Tripoli, presieduto da Fayez al-Serraj, e dall'altra l'uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar. Il 2 gennaio 2020, infatti, il parlamento turco ha dato il via libera al dispiegamento di forze militari in Libia a fianco del governo di Tripoli, riconosciuto dall'Onu. Dopo il voto è seguito l’annuncio di Erdogan di aver iniziato l'invio di truppe per “sostenere il governo internazionalmente riconosciuto di al-Serraj ed evitare un disastro umanitario”. Non è ancora chiaro quanti saranno i soldati schierati e se, come promesso, avranno compiti solo di addestramento oppure entreranno in combattimento contro l'esercito di Haftar, appoggiato da Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Di fronte alla passività dell'Unione europea, comunque, la Turchia è stata molto abile nel ritagliarsi un ruolo nello scenario libico. A sancire il protagonismo di Erdogan c'è il vertice con il presidente russo Vladimir Putin celebrato a Istanbul l'8 gennaio, in cui i due leader si sono accordati su una proposta di cessate il fuoco tra le parti libiche in lotta. Appare chiaro, insomma, che le ambizioni del “Sultano” non si limitino solo al Medio Oriente ed Erdogan sia intenzionato ad espandere l'influenza turca anche nel cuore del Mediterraneo.

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