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Opinioni

Il Belpaese ancora non sa fare sistema

E se il problema italiano non fosse solo un fisco oppressivo, una burocrazia immobilizzante e la cronica scarsità di credito e risorse, ma anche l’incapacità di “fare sistema” e più in generale di superare una crisi che resta eminentemente culturale? Andando all’estero il sospetto si rafforza…
A cura di Luca Spoldi
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Se quest’estate avrete modo di trascorrere un periodo di vacanze fuori  dall’Italia, potreste notare come mai la crisi italiana sia stata e resti una crisi eminentemente culturale come ho più volte sostenuto o, per dirla in modo un poco più provocatorio, come il problema dell’Italia non sia la scarsità di risorse ma la scarsità di competenze e visione imprenditoriale degli italiani. Non si tratta solo del fatto che in Italia ci sono troppe tasse sul lavoro, sui carburanti (sto viaggiando tra Francia e Spagna e pago mediamente un litro di gasolio per diesel tra 1,49 e 1,43 euro al litro, in Italia se riuscite a fare il pieno a meno di 1,59 euro al litro siete fortunati, la differenza è data in gran parte se non esclusivamente dal diverso carico fiscale), dalla mole di adempimenti burocratici: è proprio un modello culturale che la “classe digerente” italiana continua a propinare che impedisce al nostro paese di decollare.

Insisto a parlarvi del settore turistico perché è il caso forse più eclatante: l’Italia ha eccellenti spiagge, bellissime città d’arte, fantastici laghi e montagne, ma semplicemente non sa valorizzarli e sfruttarli adeguatamente. Non è, ripeto, un problema di proprietà pubblica o privata. In Francia le spiagge pubbliche sono la stragrande maggioranza, sono affollate (da persone civili, difficile che vediate torme di bagnanti lasciarsi dietro cumuli di cartacce o altra immondizia a fine giornata, come invece capita talvolta in Italia), la sorveglianza e l’assistenza ai bagnanti sono garantite da postazioni di polizia e vigili del fuoco (che pattugliano su spiaggia e in acqua). Situazione simile in Spagna: ci sono complessi sportivi (piscine e palestre) a poche decine di metri dalla battigia, ma le spiagge sono praticamente tutte liberamente accessibili, senza lidi (dovrete portarvi ombrelloni e sdraio se vorrete) ma tutte assistite da postazioni fisse della Croce Rossa, mentre la presenza della polizia è costante e visibile, per quanto discreta.

Si dirà: è solo un diverso modo di sfruttare una risorsa, in Italia la spiaggia fa lavorare i gestori dei lidi e/o gli alberghi, ma anche bar, ristoranti e negozi vari campano. Vero, ma andiamo un poco più in profondità: quanti euro spendete solo per scendere in spiaggia in Italia? E quanti se ne vanno in “servizi”? E quanti ancora nella ristorazione, che pure quanto a qualità non dovrebbe temere rivali? Non voglio fare il campanilista, ma se avete assaggiato la cucina francese, tedesca, inglese o spagnola, sapete benissimo che il numero di piatti è nel complesso inferiore a quelli della cucina italiana, che le loro acque sono o quasi  del tutto insipide o fin troppo addizionate di gas, anche in questo caso con una scelta molto inferiore a quella che si ha in Italia e che i costi del mangiare quotidiano sono assai più elevati che non nel Belpaese: insomma, il rapporto qualità/prezzo che trovate in Italia è difficilmente riscontrabile all’estero.

Eppure se togliamo Barilla o Ferrero, di prodotti italiani sui banchi dei supermercati esteri ne troverete pochi, segno che non siamo finora stati in grado di passare da una dimensione “artigianale” per quanto eccellente a una dimensione “industriale” in grado di imporre sul mercato i nostri prodotto (e pensare che abbiamo alcuni “assi nella manica” assoluti, dalla pizza alla pasta, che ormai sono proposti dai ristoranti di tutto il mondo, per quanto con una qualità troppe volte modestissima). Ma andiamo ancora un poco più in là con la riflessione: se andate all’estero vi capiterà di alloggiare in un albergo, magari di una grande catena come Accor o NH Hoteles. Guardatevi intorno: chi realizza gli edifici (specie quelli di recente costruzione) è quasi sempre lo stesso “contractor”, almeno a livello nazionale, ma anche chi fornisce loro gli arredi, i sanitari, le cassette per lo sciacquone, la rubinetteria, le salviette e l’hotellerie in genere, i saponi, piuttosto che, appunto, l’acqua, i vini, i liquori o gli alimentari.

Ho dato un’occhiata alla mia ultima stanza d’albergo (la catena è la francese Accor): la rubinetteria è Grohe (azienda tedesca), la componentistica Geberit (tedesca pure lei), il mobilio sembrerebbe Ikea (Svezia) o simile, la televisione a schermo piatto è Philips (Olanda). Di Italia non c’è traccia (dubito siano italiani le hotellerie o il pavimento), ma poi nel menù dell’albergo noto pizza margherita, fettuccine alla carbonara, lasagne. Ora dico, si parla tanto di “fare squadra”, di “sistema Italia”, ma al di là delle parole la formula raramente trova applicazione concreta. Anche perché spesso i possibili protagonisti dei “poli aggreganti” sono già finiti all’estero come Parmalat o Buitoni (o i Jolly Hotel). Eppure sarebbe possibile immaginare una catena alberghiera italiana, di buon livello, che si rifornisca che so Fratelli Guzzini per la rubinetteria, da Pucciplast per le cassette di scarico per WC, da Richard Ginori per i piatti di servizio (ma già, Richard Ginori ormai è stata rilevata da un gruppo estero), da Foppa Pedretti per l’arredo, da Zucchi per le telerie, da Campari per le bevande alcoliche e analcoliche e così via. Cito a caso marchi che in Italia sono assai noti, che hanno buoni prodotti e prezzi ragionevoli, che propongono un rapporto qualità/prezzo interessante.

Ora mi chiedo: sono dei geni all’estero a riuscire a collocare i propri prodotti? Sono dotati di qualità talmente elevate da superare quella dei prodotti italiani in qualsiasi confronto? Possono offrire prezzi così aggressivi da spiazzare ogni concorrente tricolore grazie ad un credito certamente più accessibile di quello italiano? Possibile, ma temo sia ancora una volta la conferma che in Italia il modello capitalistico familiare ha ormai mostrato tutti i suoi limiti, è ormai arrivato al punto in cui non può farci guadagnare nuove quote di mercato (almeno nei mercati “mass market”, mentre sicuramente resistiamo meglio in mercati di nicchia). Insomma: le risorse (spiagge, accessoristica, arredo, telerie, bevande, alimentari etc) le abbiamo, non abbiamo, ancora, la capacità di “fare sistema” né quella di evadere dalle vecchie logiche che forse andavano bene negli anni Settanta (quanto, guarda caso, la nostra “classe digerente”, che non vuole “mollare” quasi mai, era giovane e in molti casi ha “fatto i soldi” o ha iniziato la propria esperienza in politica, nell’industria o nella finanza) ma non vanno più bene oggi e sempre meno l’andranno in futuro. Ditemi voi se questo non è la prova più evidente del fatto che la crisi italiana sia prima di tutto una crisi culturale.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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