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Settant’anni dal secondo processo di Norimberga: tra verità giuridica e storica

Il 9 dicembre 1946 si apre il processo “ai dottori” del terzo Reich. Migliaia di cavie umane usate per assurdi esperimenti scientifici. Eppure lo strumento del giudizio penale, giustificato dal contesto del secondo dopoguerra, appare riduttivo di fronte alla necessità della verità storica.
A cura di Marcello Ravveduto
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Di solito si dice «il processo di Norimberga» per ricordare il monumentale iter giudiziario che ha portato alla condanna degli alti gerarchi nazisti per cospirazione, crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

In realtà nel palazzo di giustizia della città bavarese si tennero dodici processi contro gli esponenti sopravvissuti del terzo Reich. Il primo, quello che ricordiamo come il «processo», durò dal 20 novembre 1945 al 1º ottobre 1946. Quasi un anno di udienze, dibattiti, interrogatori, testimonianze e prove addotte per arrivare alla sentenza finale che riguardava ventiquattro imputati: Karl Dönitz, Hans Frank, Wilhelm Frick, Hans Fritzsche, Walter Funk, Hermann Göring, Rudolf Hess, Alfred Jodl, Ernst Kaltenbrunner, Wilhelm Keitel, Konstantin von Neurath, Franz von Papen, Erich Raeder, Joachim von Ribbentrop, Alfred Rosenberg, Fritz Sauckel, Hjalmar Schacht, Baldur von Schirach, Arthur Seyss-Inquart, Albert Speer, Julius Streicher, Robert Ley, Martin Bormann, Gustav Krupp. Di questi la metà fu condannata a morte, solo tre furono assolti.

Il secondo, quello che invece oggi intendiamo ricordare, è il cosiddetto «processo ai dottori» contro venti medici e tre funzionari amministrativi che avevano promosso e partecipato a esperimenti su esseri umani in nome di una scienza dal volto razzista: ebrei, polacchi, russi e zingari furono i "prescelti"; la maggior parte morì o rimase permanentemente menomata.

Il processo ebbe inizio il 9 dicembre 1946 e terminò il 20 agosto 1947. Furono ascoltati 85 testimoni ed esaminati 1471 documenti. Dalla ricostruzione delle prove d’accusa, oltre al programma eutanasia Aktion T4 (ossia l'uccisione sistematica di persone ritenute "indegne alla vita" – portatori di handicap, malati cronici, omosessuali –), emerse, da un lato, la piena collaborazione “professionale” allo sterminio di massa nei campi di concentramento; vennero alla luce, dall’altro, una serie di assurde sperimentazioni sui corpi dei prigionieri di guerra e di quelli civili nelle zone occupate, tesi all’annullamento della dignità umana e del diritto alla vita.

Per comprendere di cosa si sta parlando provo, mio malgrado, ad elencare gli orrori a cui erano sottoposte le cavie umane: resistenza alle altitudini (i prigionieri erano chiusi in una camera iperbarica e ricreate le condizioni di altitudini molto elevate); resistenza al freddo (le cavie giacevano in una vasca di ghiaccio per più di tre ore oppure rimanevano nude all’aperto con temperature sottozero); resistenza alla malaria (a prigionieri sani era inoculato il virus per verificare l’efficacia dei diversi trattamenti farmaceutici); resistenza ai gas velenosi (ai prescelti veniva iniettata una dose di iprite in ferite sanguinolenti); resistenza alle infezioni (si provava l’efficacia dei sulfamidici infettando i prigionieri con streptococchi e tetano).

Altri tipi di test furono: rigenerazione di ossa, muscoli e nervi e trapianto di ossa (le vittime soffrirono intense agonie, mutilazioni e inabilità permanenti); resistenza all'acqua di mare (le cavie erano private di cibo e nutrite con acqua di mare chimicamente modificata); esperimenti epidemici sull'itterizia (ai prigionieri era deliberatamente inoculato l'ittero, provocandone la morte o gravi danni fisici); esperimenti di sterilizzazione (si provarono diversi metodi per sterilizzare milioni di persone in poco tempo e con minimo sforzo: raggi X, operazioni chirurgiche e cocktail di droghe, causando la morte o invalidità fisiche e psichiche); esperimenti sul tifo petecchiale (numerosi prigionieri furono intenzionalmente intossicati con il batterio per valutarne la sopravvivenza; più del 90% morirono); esperimenti sul veleno (le sostanze tossiche venivano segretamente somministrate ai reclusi nel cibo; chi non moriva per avvelenamento, veniva ucciso per essere sottoposto ad autopsia); esperimenti su bruciature (si procuravano ustioni con il fosforo bianco, procurando dolore, mutilazioni e morte, per testare gli effetti delle preparazioni farmaceutiche).

A questo interminabile elenco di orrori vanno aggiunte: la produzione volontaria di cadaveri per studi sulla razza (centododici ebrei furono condotti all'Università di Strasburgo per essere misurati, fotografati e alla fine uccisi per realizzare prove di comparazione anatomica con l’estrazione degli organi vitali); la diffusione della tubercolosi (diecimila polacchi furono infettati e abbandonati senza assistenza medica).

Tutti gli imputati si dichiararono non colpevoli; sette furono assolti, sette ricevettero condanna a morte; i rimanenti furono condannati al carcere con diversi gradi di imputazione.

Qual è il valore del processo di Norimberga? Più che un giudizio penale si tratta di un giudizio storico fortemente voluto dagli alleati che sentivano il bisogno di usare l’arma pubblica del processo per condannare i nazisti di fronte alla Storia. È una deliberata commistione tra giudizio penale e giudizio storico in cui figure o accadimenti del recente passato sono vagliati da giudici che si ergono a rappresentanti del «Tribunale della Storia».

Si usano le prove a carico degli imputati per sentenziare e distribuire torti e ragioni di fronte all’opinione pubblica internazionale che attende la giusta punizione “democratica” per gli uomini che hanno inferto lutto e dolore a milioni di vittime innocenti.

Era già accaduto alla fine della prima guerra mondiale, quando, rompendo una lunga tradizione del diritto internazionale, si era pensato di portare alla sbarra il Kaiser (Guglielmo II) per i disastri della prima guerra mondiale, immaginando che potesse esserci un tribunale in cui venivano giudicati i fatti storici.

Norimberga è il risultato concreto di questa tendenza: si processano alcuni esponenti del terzo Reich non in quanto responsabili in senso diretto e proprio, ché erano migliaia e migliaia, ma per cercare di dare un giudizio in grado di assumere contemporaneamente una valenza giudiziaria e storica sulla grande catastrofe della seconda guerra mondiale e le immani responsabilità dei totalitarismi occidentali nel distruggere l'Europa.

La tribunalizzazione della storia, che lì nasceva, rappresenta, per certi aspetti, una componente ineludibile, un rischio, una risorsa alla quale i vincitori, di svariati conflitti, faranno ricorso in tutto il Ventesimo secolo. La stessa istituzione di tribunali internazionali e l’approvazione di leggi sulla memoria che impongono di sanzionare gli atteggiamenti negazionisti è un paradossale artificio giuridico di spodestamento della conoscenza del passato attraverso l’uso politico della storia.

Non spetta ai giudici «pronunciarsi su una materia squisitamente storica» e soprattutto «la verità storica non può essere fissata per legge o nelle aule dei tribunali; può essere solo raggiunta attraverso una ricerca rigorosa condotta liberamente dagli studiosi», dal momento che le «verità ufficiali o di Stato sono sempre pericolose, come insegnano le vicende dei regimi totalitari» e che, nei paesi in cui sono state applicate, «le leggi antinegazioniste hanno ottenuto risultati modesti o addirittura controproducenti, offrendo una involontaria tribuna alla propaganda di tesi ignobili che, altrimenti, sarebbero state completamente ignorate dall’opinione pubblica».

Quel processo apertosi settant’anni fa ancora non è chiuso, almeno fin quando un giudice riterrà che una sentenza penale (la cui responsabilità è sempre individuale) possa riscrivere la storia che è sempre collettiva e contestuale e mai legata ai fatti in sé ma a processi di lunga durata non facilmente intellegibili da un organismo la cui missione è la ricerca della sola verità giudiziaria.

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