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“Eutanasia”: una parola che per avere senso deve essere specificata

Il caso della giovane Noa Pothoven ha riaperto (in maniera non molto pertinente) il dibattito sull’eutanasia. È evidente che parte del problema nel dibattito sta nel fatto che “eutanasia” è una parola con significati troppo vaghi, che non vengono quasi mai specificati, ed è quindi comprensibile a stento. Visti i confini labili non c’è da stupirsi se il discorso ci finisce sopra anche a sproposito.
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A cura di Giorgio Moretti
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La lingua ci tocca

In questi giorni siamo tornati a parlare di eutanasia per via di una giovane europea, Noa Pothoven, che ha scelto di morire e la cui scelta è stata in un primo momento, da molte fonti d'informazione, inquadrata nelle possibilità di eutanasia e suicidio assistito che i Paesi Bassi accordano. Si è trattato di un caso in cui è stato particolarmente evidente che la confusione dei commenti sono stati determinati in buona parte dalla confusione sulle parole. Anzi, su una sola parola, proprio "eutanasia", che nei suoi amplissimi significati lascia poco discernimento.

Fino a un secolo fa il termine "eutanasia" aveva in voga un solo significato: la morte naturale serena e tranquilla, priva di dolore. Non era un significato nuovo: lo stesso imperatore Augusto pare usasse questo termine greco (euthanasìa) per augurare a sé e ai suoi cari una fine del genere, descritta con grande sintesi e composta da un derivato del greco di "thànatos" "morte", col prefisso "eu-" che significa "buono, felice". Fin qui il senso è coerente, forte, senza sbavature, tant'è che sarà usato pari pari da filosofi moderni del calibro di Francis Bacon.

Ma (come riportato nel DELI) alla fine dell'Ottocento, in italiano, la Piccola Enciclopedia Hoepli registra il termine "eutanasia" col significato di "morte provocata artificialmente, con farmaci o simili". E con questa estensione iniziano i problemi. Perché da "fatto naturale" l'eutanasia diventa "pratica", una pratica tutt'altro che unica e definita. Tant'è che è difficile, se non impossibile, avere un giudizio unico sull'eutanasia: riguardo a certe sue forme, come la pratica del trattamento pesante del dolore che debilita accelerando la morte, sarebbe probabilmente proclive anche il papa; alcune invece hanno sfociato nell'eugenetica, altre ancora hanno il carattere pacifico della soppressione di un animale domestico destinato a un'ineluttabile sofferenza, senza contare la sovrapposizione col suicidio, più o meno assistito. I significati di "eutanasia" sono diventati un minestrone.

E davanti alle parole-minestrone accettate e impiegate senza specificazione è inevitabile la confusione. Commentando ci si scivola dentro anche quando c'entrano relativamente (come nel caso della giovane olandese): sono così vaste e sdrucciolevoli! E riuscire a farsi un'idea precisa anche della propria posizione diventa davvero difficile. Probabilmente una buona idea per far maturare il dibattito sull'eutanasia, evitando polarizzazioni e generalizzazioni poco utili, sarebbe quello di specificare di volta in volta di che cosa si sta trattando, sul fatto che sia una pratica attiva o passiva, sul fatto di essere sostenuta da volontà diretta o meno, se invece si tratta di una pratica che rientra nello spettro del suicidio assistito. Senza questa cura sarà sempre difficile perfino intendere di che cosa si sta parlando, ed è inutile stupirsi delle bufale della prima ora sul fatto che i Paesi Bassi abbiano accordato l'eutanasia a una minorenne: si va a braccio.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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