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53 anni fa moriva Giuseppe Pinelli: ancora nessuna verità e la storia continua a ripetersi

Un papà racconta al suo bambino la storia di Piazza Fontana e della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli: trent’anni dopo quel bambino, divenuto papà, racconta quella stessa storia al suo bambino. Sono passati 50 anni ma non è stata fatta alcuna luce né chiarezza su chi pesino le responsabilità di quei giorni seppur come ebbe a dire Licia Pinelli: “La verità è l’unica forma di giustizia”. E a quanto pare la storia continua a ripetersi.
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Molto tempo fa, ero un bambino, mio padre mi ha raccontato una storia. Lui amava molto raccontare storie e come ha detto qualcuno prima di me, un uomo a furia di raccontare le sue storie, diventa quelle storie. Così in un pomeriggio di dicembre di tanti anni fa, mi aveva raccontato di una bomba e della morte di un innocente sognatore. Era il 12 dicembre del 1985, l'anno della grande nevicata, e mio padre mi stava raccontando della strage di Piazza Fontana e della morte di Giuseppe Pinelli, che per tutta la mia vita, pur non avendolo mai conosciuto, è stato, per me, una presenza molto familiare.

I cattivi che avevano perso la guerra continuavano di nascosto a ordire orrende trame per tornare al potere e uno dei loro terribili piani era stato quello di mettere una bomba alla Banca dell'Agricoltura, dove avevano perso la vita 17 persone e c'erano stati 82 feriti. E per non essere scoperti avevano dato la colpa ad un ferroviere, anarchico, che durante la guerra aveva combattuto con i buoni ed era stato partigiano: "Pino era morto innocente, ucciso dai cattivi, perché non sempre i buoni vincono e non sempre la verità trionfa ed è per questo che noi dobbiamo sempre continuare a raccontare la sua storia, così nessuno potrà mai dimenticare quello che è accaduto e cercheremo di fare in modo che non accada più."

La strage di Piazza Fontana

Questa era la versione di mio padre, dei terribili fatti di Piazza Fontana avvenuti il 12 dicembre del 1969, 53 anni fa, che non è neppure così lontana dalla realtà e, come lui mi raccontava 35 anni fa, non vi è stata fatta alcuna luce né chiarezza su chi pesino le responsabilità di quei tragici accadimenti, né su chi abbia ordito questa orrenda trama che ha visto al suo centro la morte di 18 cittadine e cittadini innocenti: 17 morti a causa della deflagrazione dell'ordigno esplosivo ed uno, Giuseppe Pinelli, morto a causa delle conseguenze innescate da quell'esplosione.

Pino verrà condotto nei locali della questura di Milano nel pomeriggio stesso dell'attentato, per essere interrogato circa i fatti della bomba poiché “sussistevano sul suo conto, pesanti indizi”, semplicemente e solamente perché era anarchico. Ne uscirà, volando, scaraventato da una finestra del quarto piano del palazzo della questura di Milano, 3 giorni dopo, nella notte fra il 15 e il 16 dicembre del 1969 a mezzanotte e tre minuti.

I mandanti di Piazza Fontana

Come dice Enrico Deaglio nel suo libro “La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana”, il piano – ordito da Ordine Nuovo sezione del Veneto, un’organizzazione nazifascista, molto potente e molto protetta, che agiva insieme alla Divisione Affari Riservati del Ministero dell’Interno – era di suscitare panico e disordini, cui far seguire un colpo di stato. I “cospiratori” godettero di vaste complicità soprattutto nella questura e nella procura di Milano. Il piano prevedeva anche l’accusa agli anarchici, cosa che in effetti avvenne. La presenza di una folla enorme e silenziosa ai funerali delle vittime fece capire al governo – e in particolare a Mariano Rumor, il Presidente del Consiglio – che il piano era diventato troppo rischioso.

Pinelli assassinato

Pinelli veniva trattenuto oltre il fermo legale di 48 ore, poiché continuavano a pretendere risposte da lui che non avrebbero potuto avere, perché completamente estraneo ai fatti e perché non faceva parte della sua idea di vita e di libertà mettere delle bombe, e quando dopo tre giorni ancora non ricevevano alcuna risposta di quelle che pretendevano e avrebbero voluto avere, probabilmente cominciarono ad innervosirsi, cominciarono a picchiarlo e dopo svariati calci e pugni, forse si spaventarono credendo di averlo ammazzato e per difendersi lo buttarono dalla finestra, dicendo poi che si era suicidato.

Varie, differenti e contraddittorie saranno poi le testimonianza rese dagli ufficiali in servizio quella notte e presenti in quella camera del quarto piano del palazzo della questura di Milano: diranno che si trattò di un suicidio, un raptus dettato da angoscia suicida, diranno che non vi sono verbali dell'interrogatorio perché non vi era stato il tempo di redigerli ma poi ne usciranno addirittura tre firmati di suo pugno, diranno tutto e il contrario tutto ma purtroppo dopo 50 anni ancora ignoriamo come si siano svolti davvero i fatti e chi abbia ucciso Giuseppe Pinelli.

E seppur possa sembrare una storia antica e perduta in un lontano passato, seppur i ventenni di oggi non abbiano idea di cosa sia stata Piazza Fontana o chi fosse Giuseppe Pinelli, la sua storia, il suo martirio continua a ripetersi negli anni, giorno dopo giorno, nelle vicende di Stefano Cucchi, Aldo Bianzino, Federico Aldovrandi, Carlo Giuliani etcetera etcetera etcetera cittadine e cittadini morti ammazzati, innocenti, da chi avrebbe avuto il compito di difenderli, uccisi da uno Stato che continua a negare la verità pur di fronte alla stessa lampante ed evidente. Uno Stato che continua a dire: "io non sono Stato".

Le donne Pinelli

Trent'anni dopo quel 1985 in cui il mio babbo mi raccontava la storia di Pino ho scritto ed ho messo in scena uno spettacolo dal titolo "Il Matto ovvero io non sono Stato" (ma qui potete leggere un'ottima lista di opere letterarie, teatrali, eccetera su Piazza Fontana), una tragica farsa sul processo Pinelli e sulle morti di Stato: ho deciso di farlo per far sì che i racconti di mio padre non si perdessero nei ricordi, ma anche e soprattutto per far sì che la storia di Pino non si perdesse nel tempo, che la conoscessero anche i più giovani, anche chi non l'aveva mai sentita, perché è una storia di ingiustizia e di libertà.

Poi una sera di sei anni fa, dopo una delle prime repliche dello spettacolo, ricevo un messaggio, sono in macchina (lato passeggeri ovviamente perché non ho la patente) e il cuore mi batte come non mai: Claudia Pinelli, la figlia di Pino, mi scriveva per ringraziarmi, aveva visto lo spettacolo senza che io lo sapessi e mi ringraziava per quello che facevo per Pino, per suo padre. Non avevo le parole giuste, anche perché le migliori che avevo le usavo nello spettacolo, così riesco a dirle soltanto: "Grazie a te…". Che figura di merda!

Ora siamo amici e compagni. Silvia e Claudia, figlie di Pino, hanno conosciuto i nostri piccolini, e di tanto in tanto li portiamo a trovare Licia, la vedova Pinelli, e seppur tutto si possa dire di me tranne che io sia timido, è incredibile come non riesca mai a trovare le parole giuste per dirle: "grazie, di cuore e con tutto il mio folle amore". Perché questa è sì la storia di un uomo "morto per la libertà" ma è anche la storia di tre donne che tenacemente hanno speso tutta la loro vita per la libertà, per quella libertà a cui Pino ha dedicato tutta la propria esistenza e seppur la morte l'abbia ridotto arido e spezzato, il suo ricordo rimarrà sempre qui con noi, "perché la vita quella no… a noi puoi buttarci per terra ma restiamo sempre in piedi".

Ieri ho raccontato la storia dei cattivi, delle bombe e di Pino al mio piccolino grande, con le stesse identiche parole che il mio papà aveva usato con me e vedendolo correre in casa di Licia, giocare con il suo gatto e vederla ridere mentre lui urla inseguendolo, resto quasi senza fiato perché vorrei tanto che mio padre fosse qui, per dirgli che tutto sommato le sue storie hanno cambiato un piccolo pezzo di mondo e un altro mondo è ancora possibile, nonostante tutto, nonostante cinquant'anni di silenzio perché come ebbe a dire Licia Pinelli "la verità è l'unica forma di giustizia".

E noi mai smetteremo di raccontare la verità perché non si può dimenticare quello che non ci è permesso di ricordare: non smetteremo mai di raccontare fino a quando la verità non avrà fatto il suo corso e non smetteremo mai di resistere fin quando lo Stato continuerà a dire "io non sono Stato".

Cinquant'anni sono tanti ma nonostante tutto la storia continua a ripetersi ed è per questo che noi siamo ancora qui, perché dopotutto "la storia siamo noi, nessuno si senta escluso."

No pasaran.

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