2.082 CONDIVISIONI
video suggerito
video suggerito

Bruno Caccia, il giudice che morì per aver scoperchiato gli affari della mafia del Nord

Il 26 giugno 1983, il procuratore della repubblica di Torino, Bruno Caccia veniva trucidato con una raffica di proiettili. Fu ucciso dai sicari della ndrangheta piemontese per le indagini che ne avevano portato alla luce i traffici. Affari illeciti che coinvolgevano anche dirigenti e magistrati torinesi. Quello guidato da Caccia fu il primo pool anti-criminalità al quale si sarebbe ispirato poi quello ‘antimafia’ di Falcone e Borsellino.
A cura di Angela Marino
2.082 CONDIVISIONI
Immagine

La sera del 26 giugno 1983, Bruno Caccia uscì di casa per portare a passeggio il cane. Non aveva mai voluto la scorta il procuratore capo della repubblica di Torino. Quando un collega gli aveva rivelato che l'ex terrorista di Prima Linea, Michele Viscardi, aveva confessato che uno dei suoi uomini li spiava mentre giocavano a tennis durante i loro incontri al campo di Torino, il procuratore se ne uscì ridendo: "Speriamo che non si sia segnato i punteggi, ché faresti una gran brutta figura!". Era così Bruno Caccia, prendeva il suo ruolo con ironia e aveva imparato a convivere con la paura della morte. Quando poteva scappava alla casa in campagna a Cerasole d'Alba, per coltivare l'orto, da solo. Consapevole della precarietà della sua vita, aveva voluto un pool di giovani magistrati che indagasse con lui, così, se alla fine fosse rimasto vittima di un attentato, altre giovani menti avrebbero portato avanti il suo lavoro. Preciso, scientifico, rigoroso nella sua logica serrata, Caccia diventò il riferimento di una generazione di magistrati per cui non era solo il capo, ma l'incarnazione della giustizia, il modello da seguire. Il suo fu il primo pool anti-criminalità al quale si sarebbe ispirato poi quello ‘antimafia' di Falcone e Borsellino.

Nei cosiddetti anni di piombo, il magistrato di Cuneo era diventato il leader della lotta al terrorismo rosso, alla corruzione politica, alla criminalità organizzata. Si era distinto come pioniere della ‘linea dura' contro i militanti di Prima Linea e delle Brigate Rosse. Affrontò da pm il ‘processone' che, nel 1976 portò alla sbarra degli imputati il gotha del terrorismo di sinistra accusato di agguati e omicidi eccellenti. Durante il processo a Genova venivano uccisi il magistrato Francesco Coco e la sua scorta; nel 1977 a Torino le Brigate Rosse ammazzavano il presidente dell’ordine degli avvocati Fulvio Croce, legale d'ufficio dei brigatisti imputati.

Così, quando quella sera di giugno il procuratore Bruno Caccia venne sorpreso da una Fiat 128, mentre passeggiava vicino alla chiesa della Gran Madre, capì che era arrivato il suo momento. Una gragnola di colpi -17- lo abbatté al suolo mentre il cane abbaiava disperato. Quella sera i suoi colleghi si precipitarono in Procura, le indagini per la morte del giudice dovevano cominciare subito. La prima pista battuta, nella stagione in cui i brigatisti uccidevano giudici e avvocati, fu quella delle Br. Alcune telefonate rivendicavano l'attentato presso i giornali, ma i'rossi' sconfessarono l'omicidio screditando le telefonate di rivendicazione e tutto ripartì da zero.

A Torino, in quegli anni, c'era anche lo scandalo dei petroli, una truffa da 300 miliardi di lire in cui erano invischiati finanzieri, politici e petrolieri. Il sistema si basava sulla differenza di prezzo della benzina destinata agli autotrasporti e alle industrie e quella utilizzata dai consumatori privati il cui prezzo lievitava costantemente a causa delle pesanti tasse che, però, anziché nelle casse dello Stato finivano in quelle dei petrolieri. Nei guai finì Bruno Musselli, petroliere e cavaliere del lavoro. Emersero collegamenti con la politica, i cui partiti peraltro, incassavano finanziamenti illeciti e con la massoneria.

Era in quegli affari che andava ricercato il movente dell'omicidio del procuratore? C'era un'altra pista, molto più calda, che andava seguita. Il pool di Torino aveva scoperchiato gli affari della ndrangheta trapiantata in Piemonte, che, con il clan siciliano dei Catanesi, si spartiva il territorio dividendosi il traffico di droga dal Sudamerica, il gioco d'azzardo e il prestito a strozzo. Il clan dei catanesi di Francesco ‘Ciccio' Miano rivendeva la droga a quello ai calabresi a Domenico Belfiore. Accanto agli affari illeciti, Caccia aveva scoperto anche il sistema attraverso il quale gli uomini dei clan venivano rilasciati dal carcere tornando in libertà. Il sistema coinvolgeva il Centro clinico del carcere di Torino, che attraverso false attestazioni di malattia favoriva il rilascio dei criminali. L'inchiesta del procuratore Caccia portò alla luce la connivenza di magistrati e alti dirigenti torinesi con la criminalità organizzata. Si scoprì che un bar nei locali della Procura era il punto di ritrovo dei giudici e del loro gancio.

Ce n'era abbastanza per ipotizzare molteplici piste e moventi, ma la vera svolta arrivò quando il pentito Francesco Miano fece alcune rivelazioni. Il criminale Mimmo Belfiore viene arrestato, mentre fuori dal carcere le rivelazioni del pentito scatenano una guerra tra Catanesi e Calabresi. Belfiore venne condannato all'ergastolo, nel 1993, come mandante dell'omicidio Caccia, mentre restarono ignoti gli esecutori materiali. Il 22 dicembre 2015, dopo 32 anni dal delitto, la Direzione distrettuale antimafia di Milano ha arrestato il presunto autore materiale dell'assassinio di Bruno Caccia, Rocco Schirripa, panettiere torinese di 62 anni di origini calabresi. Bruno Caccia è stato il primo magistrato a delineare la mappa delle associazioni camorristiche al Nord, tuttavia la sua memoria come vittima di mafia, in quel territorio dove si fa fatica a riconoscere l'esistenza della criminalità organizzata, si è andata sbiadendo di anno in anno.

2.082 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views