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“La cannabis cura il cancro? Abbiamo ottimi motivi per crederlo, ma c’è un ostacolo economico”

Il primo studio che ha dimostrato le potenzialità della cannabis nel trattamento del cancro è del 1974. Sono passati 45 anni e non sono ancora stati svolti ampi studi clinici. Secondo Manuel Guzman, pioniere della ricerca in questo campo, la motivazione è economica e bisogna spingere per avere più ricerca sui pazienti perché i risultati pre-clinici sono molto solidi.
A cura di Mario Catania
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Il dottor Manuel Guzman
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Il dottor Manuel Guzman è il pioniere ricerca scientifica su cannabis e cancro. Lo studio da lui guidato nel 2000 fa da spartiacque in materia ed è un lavoro che è stato scaricato, letto e citato migliaia e migliaia di volte. In quella ricerca il THC, iniettato direttamente nel tumore cerebrale di alcuni topi da laboratorio, eliminò i tumori in un terzo delle cavie trattate mentre un altro terzo di esse visse “significativamente più a lungo” di quelle a cui non era stato inoculato il THC, alcune fino a tre volte di più.

Lo studio fu pubblicato successivamente dalla rivista Nature segnando l’inizio di una ricerca che indaga ancora oggi la cannabis come fonte di varie sostanze (cannabinoidi e almeno un flavonoide) che in studi eseguiti su cellule e su animali hanno dimostrato diverse proprietà e meccanismi in grado di uccidere le cellule tumorali senza effetti collaterali su quelle sane. Quello che manca, oggi come allora, è la ricerca clinica e quindi studi ad ampio raggio eseguiti su pazienti affetti da diversi tipi di cancro.

Cannabis, cancro e ricerca scientifica

Anche in questo caso Guzman è stato un antesignano, visto che era il 2006 quando curò un primo studio pilota nel quale nove pazienti terminali con glioblastoma multiforme, una forma aggressiva di cancro cerebrale, sono stati trattati con iniezioni intracraniche e intratumorali di una soluzione contente THC: alcuni pazienti hanno risposto con una riduzione del tumore e un aumento della sopravvivenza. A livello di studi clinici c’è n’è stato un altro, effettuato nel dalla GW Pharmaceutical, produttrice del Sativex – farmaco che contiene THC e CBD in proporzione 1:1 – che l’ha testato anche in questo caso su pazienti affetti da glioblastoma in aggiunta al farmaco chemioterapico temozolomide e con un gruppo di controllo che assumeva placebo. “Secondo i risultati il Sativex si è rivelato efficace nel prolungare la vita dei pazienti del 30% in un anno e circa del 60% sulla sopravvivenza in generale”, spiega Guzman, sottolineando che: “Sono ottime notizie, ma servono ampi studi aggiuntivi”.

Sono almeno 19 anni, dunque, che la cannabis viene studiata per le sue proprietà anticancro, senza che la comunità scientifica sia arrivata ad una conclusione definitiva. Alla domanda diretta se oggi la cannabis possa essere considerata una sostanza che cura il cancro, la risposta di Guzman è che “semplicemente non lo sappiamo”, proprio perché manca una serie e approfondita ricerca clinica che testi cannabis e cannabinoidi nei diversi tipi di tumore. Secondo il dottore infatti il cancro è una patologia molto complessa, distinta in diversi tipi che colpiscono diverse parti del corpo.

Quello che oggi sappiamo con certezza è che la cannabis è utile per trattare i sintomi del cancro e gli effetti collaterali di chiemio e radioterapia. “Noi, come terapisti del dolore la prescriviamo quasi a tutti i pazienti che intercettiamo, non solo ai malati in stadio avanzato, come supporto perché avere a disposizione una sostanza che da un controllo di tanti sintomi del malato, dalla debolezza alla mancanza di appetito o il vomito durante le chemioterapie, piuttosto che per il controllo dell’insonnia e dell’ansia, permettendo inoltre di ridurre le dosi degli oppiacei, è un valore aggiunto", ci aveva raccontato il dottor Vittorio Guardamagna, primario del reparto di cure palliative allo IEO di Milano. Benefici confermati a Fanpage da un ragazzo che, affetto da una forma aggressiva di cancro, aveva sottolineato che senza i benefici della cannabis, probabilmente non sarebbe riuscito a portare a termine le cure tradizionali.

Cannabis contro il cancro: una potenzialità nota da 45 anni

Quello che invece molti non sanno, è che sono almeno 45 anni che si ha notizia di questa potenzialità. Come ho scritto nel mio libro "Cannabis. Il futuro è verde canapa", era il 1974 quando i ricercatori del Medical College of Virginia, che era stato finanziato dal National Institute of Health, scoprirono che il THC aveva rallentato la crescita di tre tipi di cancro nei topi (al polmone, al seno e nella leucemia indotta da virus), “rallentando la crescita dei tumori e prolungando le loro vite del 36%”. I risultati furono pubblicati l’anno successivo sul Journal of The National Cancer Institute. Nonostante questo, il governo americano non rese pubblici i risultati e si rifiutò di proseguire le ricerche fino a quando non autorizzò uno studio simile negli anni ’90.

“Oggi", spiega Guzman, "abbiamo davvero molte evidenze scientifiche sul fatto che i cannabinoidi possono inibire la crescita del tumore in studi realizzati sugli animali. I risultati sono molto solidi e in differenti tipi di cancro sia nei topi che nei ratti è stato dimostrato che possono inibire la crescita del tumore tramite diversi meccanismi come ad esempio inducendo la morte delle cellule tumorali, la riduzione della proliferazione delle cellule tumorali e delle metastasi e riducendo l’angiogenesi del tumore (la formazione di nuovi vasi sanguigni, nda)".

Per avere risposte chiare serve più ricerca clinica

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Ma secondo il ricercatore "il problema è quello di poter fare le stesse osservazioni sugli umani, animali molto più complessi di ratti e topi, e infatti, non solo nel campo della cannabis, ma in quello della farmacologia più in generale, ci sono farmaci che funzionano molto bene sulle cavie, ma non sugli umani. Quindi dobbiamo essere molto prudenti".

Ci sono case report e prove aneddotiche in internet, nei documentari e nei media di pazienti che sostengono di aver curato il proprio cancro con la cannabis, ma non abbiamo certezze; secondo Guzman: "Potrebbe essere l’effetto placebo, potrebbe essere stata la cannabis, o il cambiamento delle abitudini di vita oppure ancora un mix di questi fattori. Naturalmente, avendo lavorato in questo campo per 20 anni, sono molto ottimista ma sono anche realista e non voglio dare false speranze ai pazienti e soprattutto non voglio che le multinazionali farmaceutiche si riempiano le tasche mentendo ai pazienti. Quindi credo che serva molta prudenza. Dobbiamo spingere perché venga fatta maggior ricerca clinica, dobbiamo aiutare i pazienti e la cannabis funziona bene per il trattamento dei sintomi del cancro e sta crescendo il suo utilizzo per ridurre il dolore e gli altri sintomi".

Cannabis e sinergia con i trattamenti tradizionali

Oggi iniziano anche ad esserci i primi studi che analizzano la sinergia tra cannabinoidi e chemio e radioterapia, una strada che potrebbe essere il prossimo passo per il futuro. "Io sono d’accordo", sottolinea Guzman, "sul fatto che per combattere il cancro, specialmente nelle forme aggressive, serva una combinazione di terapie. Abbiamo bisogno di armi e approcci diversi, e quando combiniamo diversi farmaci, che hanno un differente meccanismo di azione, possiamo vedere i diversi processi in cui cresce il tumore e gli effetti che questi trattamenti hanno. Penso che sia la strada per il futuro e in studi sui topi i cannabinoidi funzionano meglio quando sono combinati con altri farmaci o altre terapie".

Anche perché, dai primi risultati, sembra che si possa fare meno chemioterapia, avendo comunque degli effetti migliori. "Sembra, ma abbiamo ancora delle prove chiare. Però abbiamo visto in alcuni modelli animali che il trattamento combinato con cannabinoidi e chemioterapia o radioterapia può agire in sinergia, diminuendo gli effetti collaterali di questi trattamenti, ed è una cosa molto interessante per il futuro".

Cosa ha impedito che venissero fatti gli studi clinici?

Abbiamo visto che il primo studio che ha dimostrato la potenzialità dei cannabinoidi di avere un’attività antitumorale è del 1974 e che oggi abbiamo più di 100 studi che in vitro e negli animali dimostrano che diversi cannabionidi possono avere queste proprietà. Alla domanda sul perché ad oggi non siano stati svolti alpi studi clinici, Guzman risponde che: "Potrei dirti di chiedere ai medici e alle aziende, ma sarò più cortese. E’ una questione economica. Chi può fare gli studi clinici? Possono essere condotti dai medici con il supporto economico dei governi e quindi con fondi pubblici, o, come succede spesso nel mondo della ricerca odierno, da fondi privati e quindi da aziende. In generale condurre studi sui cannabinoidi è molto complicato a causa del proibizionismo che ha ostacolato la ricerca. Finché il THC e la cannabis sarà inserito nella tabella I della Convenzione sugli stupefacenti sarà molto difficile lavorare con questi composti nella ricerca, ed è una cosa che ha contribuito a creare molti pregiudizi anche nella pratica medica. In quest’ottica anche molte aziende hanno tagliato i fondi per la ricerca sulla cannabis per evitare di avere problemi legali. E poi non bisogna dimenticare che i cannabinoidi sono un prodotto naturale ed è difficile brevettarli, e quindi diventa difficile creare delle medicine standardizzate".

Una speranza per il futuro

Insomma, secondo Guzman, "ci sono diversi fattori che presi insieme hanno portato a questa situazione ed è una vera sfortuna perché io oggi nono posso dire che la cannabis curi il cancro, o che somministrando cannabinoidi possiamo prevenire lo sviluppo di particolari tipi di cancro negli umani. Forse per il glioblastoma ma abbiamo bisogno di più prove. Dobbiamo provarci, facendo gli studi clinici e verificare questa potenzialità, che a livello preclinico è molto forte. Possiamo dire che è una buona speranza per il futuro".

All’Università Complutense di Madrid oltre a Manuel Guzman, lavorano anche il dottor Guillermo Velasco e la dottoressa Cristina Sanchez, tre mostri sacri in materia, probabilmente tra i più preparati al mondo su questa tematica. Chissà che qualche risposta non arrivi proprio dalle loro ricerche. "Sarebbe stupendo. Ma come ho detto prima noi possiamo fare ricerca di base, poi bisogna coinvolgere i medici e le aziende per gli studi clinici. Noi possiamo essere dei catalizzatori e aiutare nei protocolli nelle analisi e nei materiali. Ma non possiamo prescrivere farmaci o seguire i pazienti, è fuori dalla nostra responsabilità. Però faremo del nostro meglio per convincere le aziende a finaziarli, perché alla fine, il futuro è questo".

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