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Coronavirus, perché i casi in Usa e Nigeria sono più pericolosi dell’epidemia in Italia

Uno è il cuore pulsante dell’economia globale. L’altra una delle aree urbane a più alta densità abitativa di tutto il pianeta. Mentre noi misuriamo gli effetti dell’epidemia sulle nostre vite, i casi in Usa e Nigeria minacciano di far entrare il problema Coronavirus in una fase del tutto nuova. In cui il problema non è la mortalità, ma la diffusione del contagio.
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Le notizie di oggi più importanti sono due. E sui media italiani non hanno trovato lo spazio che avrebbero meritato. Nei giorni scorsi, infatti, si sono verificati due casi di Coronavirus all’esterno delle zone che finora ritenevamo essere infette. Uno nella Silicon Valley, in California. L’altro a Lagos, in Nigeria, nel cuore dell’Africa.

È molto peculiare il fatto che questi casi siano emersi così vicini l’uno con l’altro. Perché per quanto siano lontani un mondo in cui un nerd paga 100mila dollari per un monolocale e quello degli slum di Lagos in cui si vive con un dollaro al giorno – il Coronavirus non guarda in faccia a nessuno, potremmo dire – mostrano la vera natura della grande epidemia di questi mesi: quello di essere per fortuna molto meno grave del suo cugino SARS. E del suo essere invece quasi devastante negli effetti economici, sociali e politici che è in grado di generale.

Della scarsa letalità abbiamo già parlato. A sua conferma, ieri è uscito l’editoriale di uno dei direttori dell’NIH, il Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti d'America, secondo i cui studi la sindrome simil influenzale da Coronavirus avrebbe un tasso di moralità molto più basso dell’1% e si attesterebbe attorno ai valori di mortalità dei virus influenzali.

Del suo potenziale distruttivo degli assetti economici, politici e sociali stiamo vedendo un assaggio oggi in Italia. Ristoranti vuoti, presenze turistiche a picco, partite di calcio a porte chiuse, eventi rimandati o cancellati, produzioni ferme, assalto ai supermercati, esercito per strada. Nulla, in confronto a quel che potrebbe accadere se il virus dispiegasse lo stesso potere di diffusione in territorio molto più densi e popolosi del nostro, come quello della Silicon Valley o quello nigeriano. E il crollo dell’indice Dow Jones del 27 febbraio, uno dei tonfi più clamorosi dai tempi del crac di Lehmnan Brothers, ce lo ricorda immediatamente.

Cosa può accadere se il virus si diffonde nei data center o nei campus di Google, Apple o Facebook? E cosa può accadere se uno dei cuori pulsanti dell’Africa, una città che cresce al ritmo di migliaia di abitanti al giorno diventa il focolaio africano del virus? Non lo sappiamo. Quel che possiamo supporre è che sarà una trasmissione rapida ed efficace. E che queste due realtà, più dell’Italia e dell’Europa, diventeranno il nuovo osservatorio per capire come si muove il virus in contesti metropolitani ad altissima densità.

Gli effetti tuttavia dipendono anche da noi. L’Italia è il primo paese Occidentale che ha sperimentato casi su larga scala il contagio da coronavirus. Proprio per questo, è importante essere d’esempio. Se noi italiani saremo trasparenti e rigorosi nell’affrontare il virus potremo essere una guida alla California e alla Nigeria su come gestire al meglio i focolai che verranno diagnosticati. Altrimenti, toccherà di nuovo ricominciare da capo. E ogni volta, si bruciano miliardi.

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Ilaria Capua (Roma, 21 aprile 1966) è una virologa ed ex politica italiana, nota per i suoi studi sui virus influenzali e, in particolare, sull'influenza aviaria. È stata deputata dal 2013 al 2016, durante la XVII legislatura, eletta nelle liste di Scelta Civica. Nel 2006 ebbe notevole risonanza internazionale la sua decisione di rendere di dominio pubblico la sequenza genica del virus dell'aviaria, che diede il via allo sviluppo della cosiddetta "scienza open-source" e iniziando a promuovere una campagna internazionale a favore del libero accesso ai dati sulle sequenze genetiche dei virus influenzali. Per questo la rivista Seed l'ha eletta "mente rivoluzionaria"ed è entrata fra i 50 scienziati top di Scientific American. Attualmente dirige un dipartimento dell'Emerging Pathogens Institute dell'Università della Florida.
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