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Opinioni

Assumere una donna incinta dovrebbe essere la regola non l’eccezione

La notizia dell’imprenditore che ha assunto comunque una donna che ha “confessato” di essere incinta dovrebbe essere la regola, invece viene festeggiata come eccezione.
A cura di Jennifer Guerra
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Simone Terreni sul suo profilo LinkedIn mostra orgoglioso i giornali che parlano di lui ed elenca le trasmissioni tv alle quali è stato invitato. La sua impresa eccezionale? Aver rispettato la legge e assunto per un periodo di prova una donna, Federica Granai, che durante il colloquio per la sua azienda VoipVoice gli ha rivelato di essere incinta. Una storia che effettivamente in queste ore viene commentata e ripresa da tutte le testate come se fosse un fatto a cui si fa fatica a credere.

È sicuramente una storia positiva, ma non è, o non dovrebbe essere, una notizia. Innanzitutto, in Italia il Decreto legislativo n. 198/2006, noto come Codice delle pari opportunità, vieta “qualsiasi  discriminazione per quanto riguarda l'accesso al lavoro” sulla base del sesso e precisa che la discriminazione viene attuata anche “attraverso il riferimento allo stato […] di gravidanza”. Ciò significa in altre parole che è illegale decidere di non assumere una donna solo per il fatto che è incinta. Si tratta di una legge che affonda le proprie radici in una delle prime e più importanti conquiste sindacali del dopoguerra per le donne: il divieto di licenziare chi aspetta un figlio, introdotto nel 1950 e rafforzato nel 1963 con il divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio, in un’epoca in cui la celebrazione delle nozze equivaleva a una gravidanza imminente.

Inoltre, va anche precisato che Granai non era tenuta a “confessare” – questo il verbo scelto in molti articoli – la gravidanza. Non solo perché, come ha detto anche lei stessa, poteva benissimo comunicarlo dopo l’assunzione (e in tal caso, sempre a norma di legge, non avrebbe potuto essere licenziata), ma anche perché un’eventuale gravidanza non dovrebbe essere mai tema di un colloquio di lavoro. Non c’è nulla di male nel fatto che Terreni e Granai abbiano voluto parlare pubblicamente di un rapporto di lavoro iniziato in ottimi termini, ma la copertura mediatica che sta ricevendo in queste ore è sproporzionata rispetto alla sua ordinarietà. Non perché queste cose accadano di frequente, ma perché dovrebbe essere del tutto normale che un datore di lavoro rispetti la legge e sia corretto nei confronti di lavoratrici e lavoratori o aspiranti tali.

L’altro aspetto problematico del modo in cui viene raccontata questa storia, che in realtà ne ricalca molte altre che riguardano assunzioni “inconsuete”, è che si presenta ancora una volta il lavoro come una gentile concessione. In un’economia che funziona, il lavoro non dovrebbe essere considerato una forma di magnanimità di un imprenditore illuminato, a maggior ragione quando ti assume “nonostante” ci sia una condizione apparentemente sfavorevole, ma come un diritto di tutte e tutti. Lavorare significa avere le risorse per condurre una vita dignitosa e questa condizione non dovrebbe dipendere dalla bontà del datore di lavoro, ma dovrebbe essere garantita a tutti.

La diffusione di storie come queste ci fanno sentire bene e magari servono a ridarci un po’ di fiducia nell’umanità, ma in realtà non fanno altro che rivelare le carenze del nostro sistema, che ritiene fuori dalla norma che una futura madre lavori e che ci sia pure qualcuno disposto ad assumerla lo stesso. Come afferma lo storico del lavoro Max Fraser, “Questo tipo di storie fungono da barlume di speranza in un mare di difficoltà sociali e, allo stesso tempo, sono indicative di fallimenti sistemici totali”. La vicenda del bambino che vende la sua console di videogiochi per aiutare la madre a comprare un’auto non dovrebbe farci sospirare di tenerezza, ma deve farci chiedere come sia possibile che un tredicenne si senta in dovere di aiutare economicamente una madre che evidentemente versa in grandi difficoltà economiche per spingere un figlio a fare un gesto del genere.

Nello specifico caso di Federica Granai, non è difficile capire perché abbia fatto tanto scalpore: non dimentichiamo che l’Italia ha l’occupazione femminile più bassa d’Europa, l’11% delle donne lascia il posto di lavoro dopo il primo figlio, dopo il quale perderebbe il 53% del proprio stipendio su lungo periodo. Dopotutto, la narrazione mediatica delle donne in questo Paese segue sempre il paradigma dell’eccezionalismo in ogni campo, specie quello lavorativo: oltre a tutta l’agiografia delle “prime donne a diventare questo e quello”, il tema dell’occupazione femminile merita attenzione solo quando possiamo diventare le più brave nel nostro campo, o anche solo diverse da tutte le altre, fosse anche perché un lavoro lo abbiamo ottenuto. Persino i dati sulla perdita dei posti di lavoro fanno notizia solo quando sono eccezionali: tutti si sono indignati di fronte alle 99mila donne su 101mila posti persi a dicembre 2021, ma l’emorragia occupazionale delle lavoratrici va avanti dall’inizio della pandemia e anzi è rimasta costante negli ultimi dieci anni.

Sarebbe bello se la storia di VoipVoice fosse stata raccontata come un campanello d’allarme, più che come una favola a lieto fine. Perché è assurdo che una donna si senta di dover “confessare” di essere incinta, e ancor di più che si magnifichi la sua assunzione come un sogno che si avvera.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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