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Quanto vale la scomunica di Papa Francesco?

A Sibari il Pontefice ha pronunciato un anatema contro la ‘ndrangheta. Ma la presa di posizione del Vaticano sarà effettiva solo se si avrà la forza di allontanare i prelati compromessi con il potere mafioso.
A cura di Marcello Ravveduto
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Non sono un esperto di diritto canonico ma la scomunica nella storia della Chiesa cattolica dovrebbe essere un atto estremo senza ritorno. Il primo luglio del 1949 la Congregazione del Sant'Uffizio condannava pubblicamente l'ideologia comunista. Il decreto non veniva presentato come un’iniziativa della Santa Sede, ma come una dichiarazione ufficiale proclamata al popolo dei fedeli i quali, se avessero professato, difeso o propagandato la dottrina comunista, si sarebbero trovati ipso facto in situazione di scomunica.

In diverse diocesi italiane il decreto venne reso pubblico attraverso l'affissione di manifesti come questo.

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La presa di posizione, col tempo, andò sempre più scemando al punto che la categoria dei cattocomunisti non solo fu comunemente accettata ma diventò, negli anni della contestazione, una sensibilità interna al Pci e nei movimenti cattolici conciliaristi. Lo stesso Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse, proveniva dalla gande famiglia cattolica.

C’è differenza tra la scomunica del 1949 e quella del 2014 di Papa Francesco?

Starete pensando che il paragone nemmeno si pone: nel primo caso si trattava di una scelta ideologica dettata dall’impostazione antimodernista di Pio XII (in un modo diviso in due blocchi); nel secondo caso si prende atto dell’impossibilità di coesistenza tra la religione cattolica e la ‘ndrangheta quale «adorazione del male e disprezzo del bene comune».

Pio XII non ha mai pronunciato in prima persona un anatema contro i comunisti, Francesco, invece, si è spinto oltre esponendosi di fronte al popolo in adorazione mischiato al quale ci sarà stato pure qualche mafioso. In tal senso il gesto del Papa assomiglia molto di più all’anatema di Giovanni Paolo II della Valle Templi.

Rivolgendosi ai mafiosi (che nel biennio 1992/1993 minacciavano lo Stato e il popolo italiano con una nuova strategia della tensione), Woytila dice: «Lo dico ai responsabili, convertitevi». Ma come spesso accade le immagini sono più significative delle parole: alle sue spalle c’è un alto prelato che, quando capisce dove il Papa vuole andare a parare, si mette le mani in faccia quasi a nascondere le espressioni di paura, di disperazione e di costernazione provocate dall’invettiva del Pontefice. La risposta di Cosa nostra fu l’assassinio di don Puglisi.

Nella parole del papa polacco non c’era un’affermazione di insuperabile incompatibilità tra religione cattolica e mafie. Quel «convertitivi» apriva lo spazio a un’interpretazione di altro tipo: uno dei compiti millenari della Chiesa è recuperare le pecorelle smarrite attraverso lo strumento della confessione e del pentimento in vista di una sempre possibile redenzione.

Così se da un lato don Puglisi andava incontro al martirio, a causa della difesa del bene comune, dall’altro molti preti chiudevano gli occhi di fronte al totalitarismo mafioso giustificando la propria omertà in funzione dell’auspicata conversione.

Nell’agosto 2010, infatti, la curia di Catanzaro-Squillace diffuse un comunicato in cui invitavano gli esecutori degli omicidi avvenuti nell’ambito della "faida dei boschi" a convertirsi. Nella nota si leggeva: «Si può sfuggire al giudizio degli uomini, ma certamente non al giudizio di Dio che, tuttavia, non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Dio è sempre pronto a perdonare chi ha sbagliato, basta che si è disponibili ad accogliere il suo perdono. Il peccato che non potrà essere perdonato è la disperazione. Come potrebbe Dio perdonare chi non ha fiducia nella sua misericordia? Peccarono Pietro e Giuda: il primo rinnegandolo ed il secondo tradendolo col segno dell'amore, il bacio. Pietro ebbe fiducia nella misericordia di Dio e fu perdonato, Giuda non ebbe fiducia e, disperato, finì impiccato ad un albero di ulivo. Anche per gli assassini vi è una via di salvezza: la conversione, per ricevere il perdono da Dio e dagli uomini e non finire disperati».

Gli ‘ndranghetisti si dovevano convertire per non morire disperati. Ma la frase più inquietante era: «Si può sfuggire al giudizio degli uomini…». Il che equivaleva a dire che alla Chiesa, in forza dei suoi obiettivi ultraterreni, non importava se i criminali sfuggivano alla condanna dei reati, contava solo il pentimento di fronte a Dio, quale segno di ricongiunzione alla fede e fonte di salvezza.

Se io fossi stato uno dei magistrati in prima linea contro la ‘ndrangheta non solo mi sarei indignato di fronte all’appello della curia, ma avrei fatto il possibile per togliere ai protagonisti della vicenda la cittadinanza italiana. Capisco l’universalità della Chiesa, ma se questa è collocata in Calabria la gerarchia dovrebbe sentire il dovere civico, oltre quello religioso, di chiedere ai mafiosi di collaborare con la magistratura per contrastare le violenze e gli affari delle cosche. Non può esistere vero pentimento senza restituire alla società una parte del benessere civile ed economico che le è stato violentemente sottratto.

In quello stesso anno (ottobre 2010) Benedetto XVI, a Palermo, gridava con forza ai giovani siciliani: «Non abbiate paura di contrastare il male! Insieme, sarete come una foresta che cresce, forse silenziosa, ma capace di dare frutto, di portare vita e di rinnovare in modo profondo la vostra terra! Non cedete alle suggestioni della mafia, che è una strada di morte, incompatibile con il vangelo, come tante volte i nostri vescovi hanno detto e dicono!».

In Calabria un vescovo sperava nella redenzione di truculenti assassini, mentre il Papa in Sicilia incitava i giovani a non cedere alle suggestioni del potere mafioso. Una Chiesa bifronte.

È a questa ambiguità che Francesco deve dare una risposta. La beatificazione di don Puglisi, quale martire cristiano giustiziato in odium fidei (in odio alla fede) e la scelta di partecipare al fianco di don Luigi Ciotti alla messa in commemorazione delle vittime innocenti delle mafie sono le due tappe che hanno condotto il Pontefice all’anatema di Sibari.

Quella di Bergoglio è una condanna latae sentenziae (sentenza pronunciata): la scomunica non ha bisogno di essere decretata da un ente ecclesiastico ma scatta automaticamente per i fedeli che compiono un atto delittuoso o che accettano le lusinghe della ‘ndrangheta.

Ciò significherebbe che anche i preti, i vescovi e tutte le gerarchie ecclesiastiche che hanno rapporti di collusione con le mafie sono fuori dalla Chiesa. Se il Papa fa sul serio la conseguenza immediata dovrebbe essere la cacciata di decine di prelati che per vantaggi personali o relativismo etico si sono conformati e si conformano al volere delle mafie: da quelli che accettano le offerte di boss e affiliati in occasione delle feste patronali, a quelli sempre pronti a dispensare sacramenti e benedizioni per le famiglie dei clan.

Mi permetto di dare un suggerimento: il Vaticano, in occasione del sessantacinquesimo anniversario della scomunica dei comunisti, dovrebbe far distribuire nelle diocesi italiane un manifesto nel quale si esplicita la sanzione religiosa. Proviamo a sostituire nel testo del 1949 il termine comunismo con mafie e comunista con mafioso per vedere l’effetto che fa:

 «Fa peccato grave e non può essere assolto:

Chi è mafioso.

Chi difende l’operato delle mafie.

Chi sostiene un clan e i suoi affiliati.

Chi diffonde la mentalità mafiosa.

Chi partecipa alle attività mafiose in qualsiasi modo

È scomunicato e apostata:

Chi, mafioso o no, accetta l’adorazione del male e il disprezzo del bene comune di un’organizzazione criminale anticristiana che agisce in odio alla fede; chi collude e collabora con essa. Queste sanzioni sono estese a tutti quelli (persone e istituzioni) che fanno causa comune con le mafie».

 Solo così si potrà mettere fine alle ambiguità e rendere la conversione religiosa un elemento di congiunzione con i diritti e i doveri costituzionali: i mafiosi dovrebbero poter ottenere il perdono religioso solo se disposti ad accettare una piena e reale collaborazione con lo Stato.

Se così non sarà si rischierà di lasciare scoperti, ancora una volta, i tanti preti in prima linea che quotidianamente testimoniano la loro fede con un costante impegno civile. Gli altri, la maggioranza, continueranno a condurre le loro parrocchie e diocesi voltandosi dall’altra parte. Ma anche per loro, e non solo per i mafiosi, arriverà il giudizio del Signore. Cosa risponderanno quando dovranno render conto della loro condotta?

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