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Opinioni

Svecchiare l’Italia si deve e si può

L’Italia non cresce, le retribuzioni medie restano al palo, solo un pugno di grandi vecchi vede crescere la propria ricchezza sempre di più. Per ripartire occorre svecchiare e liberalizzare l’economia e la società.
A cura di Luca Spoldi
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Il Governo incontra le parti sociali per la riforma del lavoro

Niente da fare: per quanti sforzi si facciano l’Italia è sempre più un paese di corporazioni interessate a tutelare il proprio orticello anche se questo significa bloccare quasi ogni prospettiva di sviluppo. Già modesti, i provvedimenti di liberalizzazione che il governo Monti aveva annunciato poche settimane fa appaiono nell’ultima versione destinata a raggiungere il Parlamento (dove un buon numero di deputati e senatori “sensibili” alle richieste di questa o quella lobby potrà ulteriormente depotenziare ogni misura in grado di creare autentica concorrenza e ledere i “legittimi interessi” delle varie caste) ulteriormente svuotati di contenuto per taxisti e farmacisti oltre che per i liberi professionisti. Non parliamo poi di banche e assicurazioni, che misure di vera concorrenza non hanno mai dovuto conoscere in vita loro nel Belpaese, mentre anche tutto il gran parlare dell’articolo 18 sembra destinato solo a creare un gran polverone per poi lasciare spazio a compromessi e accordi “di scambio” (non necessariamente sul mercato del lavoro) senza che nessuno abbia proposto misure in grado di far realmente ripartire il mercato del lavoro e l’occupazione, specie giovanile e femminile.

Così l’Italia resta il paese in cui un pugno di “grandi vecchi” (quasi sempre uomini) guadagnano  centinaia di migliaia di euro l’anno (se non milioni) più di quelle che sono le medie europee per le funzioni che svolgono (sommando spesso una molteplicità di incarichi che moltiplicano le loro entrate e riducono le possibilità di carriera di altri funzionari e manager altrettanto o anche più meritevoli di ricoprire tali incarichi) e contemporaneamente il paese in cui la retribuzione media (al 2009, ultimo anno disponibile) dei dipendenti in aziende con almeno 10 dipendenti è pari a 23.406 euro lordi, dodicesima tra i sedici paesi che quell’anno costituivano Eurolandia, superata tra i PIIGS da Irlanda, Grecia, Spagna e davanti solo al piccolo Portogallo.

Una contraddizione solo apparente che si spiega benissimo, purtroppo, con due fenomeni del tutto complementari: da una parte l’aver puntato su settori maturi e non aver mai saputo favorire né un’apertura alla concorrenza che consentisse di migliorare costantemente i risultati delle aziende interessate né un processo di aggregazione che portasse alla nascita di “campioni nazionali” in grado di reggere il confronto coi principali concorrenti esteri (valga un esempio per tutti: lo scorso anno il gruppo Fiat, che ormai comprende anche l’americana Chrysler, ha raggiungo gli 1,7 miliardi di euro di utile netto su 59,6 miliardi di euro di fatturato, mentre la tedesca Volkswagen ha segnato 15,8 miliardi di euro di utile netto su un giro d’affari di 159 miliardi di euro. Quale dei due gruppi pensate che da qui a 20 anni potrà eventualmente acquisire l’altro?).

Dall’altra parte il “nero” è sempre più diffuso non solo per motivi di elusione/evasione fiscale (al riguardo non posso che commentare con molta amarezza l’ennesimo “nulla di fatto” sul fronte del calo della pressione fiscale che pure era parso a portata di mano appena la scorsa settimana e che invece sta lasciando posto alle consuete dispute pre-elettorali su come “spartire” il “futuro tesoretto” fiscale, se e quando ci sarà), ma semplicemente perché per molti è il solo modo di riuscire a raggiungere una soglia di reddito minima per pagare costi fissi sempre più alti legati sostanzialmente al tenore di vita. Così la crescita resta due volte sconosciuta, sia alle statistiche ufficiali sia nelle tasche degli italiani o almeno della maggioranza di essi, certamente non alla gerontocrazia che è al momento saldamente al vertice della piramide sociale ed economica italiana.

Che servirebbe per uscire da questa situazione che conviene a chi dispone di un patrimonio consistente e di un reddito sufficientemente sicuro, ma ingessa la società e lega l’economia a schemi sempre più superati e fa aumentare ogni giorno il rischio di un definitivo depauperamento di interi settori economici da quelli più tradizionali (per la mancanza o l’insufficienza dei capitali necessari a competere in modo efficiente) a quelli più innovativi (per la carenza di finanziamenti o misure di sostegno alla ricerca e all’innovazione tecnologica)?

Servirebbe una rivoluzione culturale che svecchiasse il paese sia negli uomini sia nelle idee, portando al centro da un lato le competenze e dunque l’importanza di una formazione approfondita, aggiornata e costante in tutti i settori, dall’altro svincolando il credito a concetti di garanzia patrimoniale superati dall’attuale organizzazione economico-sociale (che senso ha limitarsi quasi esclusivamente a offrire mutui e finanziamenti a lunga durata a chi può portare a garanzia un reddito da lavoro dipendente se poi il “posto fisso” è sempre più un miraggio e si esalta a parole l’imprenditorialità, di fatto sfruttando ampiamente forme di “auto impiego” come mezzo per abbattere compensi e relativi oneri fiscali più che per acquisire competenze?), elaborando finalmente una nuova politica industriale (ed energetica) e per l'innovazione e più in generale sostenendo senza se e senza ma la libera concorrenza in tutti i settori come autentica forza motrice del rinnovamento.

Si dirà: nelle condizioni attuali un “Far West” privo di leggi e garanzie è l’ultima cosa che serve all’economia italiana. Sbagliato: primo perché liberalizzare non vuol dire farlo senza regole ma dare in modo a tutti, in base a una serie di norme e requisiti che regolano ogni singola attività, di svolgere tale attività senza ingiustificate barriere all’ingresso che tutelano solo rendite di posizione e non offrono alcuna garanzia della qualità ed “equità” nella fornitura del servizio o nella produzione e distribuzione del bene; secondo perché dopo oltre 15 anni di mancata crescita (legata all’azione congiunta di leader vecchi legati a vecchi schemi e incapaci di guardare avanti e molteplici e potenti lobby intenzionate a salvaguardare solo le proprie rendite e del tutto disinteressate del “bene comune”) dovrebbe essere ormai evidente a tutti che stiamo scivolando ogni giorno più in basso in ogni classifica, mettendo a rischio il futuro nostro e dei nostri figli. E senza futuro ogni discussione sulla bontà di un modello o dell'altro è mera teoria che non ci aiuta a pagare i conti alla fine del mese.

L’alternativa? Come per la Grecia che i nostri creditori ritengano un giorno che non siamo più in grado di crescere e quindi che non rappresentiamo più un debitore solvibile, il che con quasi 1.900 miliardi di euro di debito pubblico sulle spalle qualche problema potrebbe darlo a tutti. Quindi ben vengano le prese di coscienza che in Italia gli stipendi son troppo bassi, ma proprio per questo cerchiamo di creare le condizioni necessarie a investire nuovamente e tornare a crescere, possibilmente in modo più equo, così da recuperare anche il gap in termini di compensi e salari e non arricchire ulteriormente solo pochi "grandi vecchi" e loro figli e nipoti. Come? Liberalizzando l’economia, riducendo la pressione fiscale e rinnovando i vertici di aziende pubbliche e private oltre che delle istituzioni. C'è qualcuno che è pronto a farlo davvero?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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