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Messi è grande come Maradona: il momento è arrivato e il caso è finalmente risolto

I Mondiali in Qatar, vinti dall’Argentina, hanno chiuso l’atavico dibattito consegnando Messi ad una dimensione di eterna grandezza, quella di cui ha le chiavi Diego Armando Maradona.
A cura di Jvan Sica
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Dopo i primi due anni di Messi con Guardiola al Barcellona, tutti, soprattutto in Italia che ci siamo goduti El Pibe negli anni buoni, abbiamo aperto il caso, così scottante che ci si meraviglia come Hollywood non ne abbia fatto già una serie. Il tema è: Messi può diventare meglio di Maradona? Detta così, molto semplicemente. I dati c’erano, c’erano le vittorie e tutto il resto, anzi con i club non c’era partita. Serviva un’ultima condizione però necessaria: Messi deve vincere un Mondiale come Diego, magari non da one man band come El Pelusa nel 1986, ma con un peso specifico che gravi e pesi sulle spalle e le parole dei posteri. Posta la tesi iniziale, ci siamo accomodati sui divani di casa, abbiamo preso la bilancia che collegava occhi, cervello e sentimento, messo Diego su un piatto e abbiamo iniziato a pesare Messi.

Se il Mondiale di Germania 2006 non è considerabile, perché Messi era un bambino-orpello e nient’altro, in Sud Africa è stato un massacro. Diego era in panchina, Messi non lo guardava nemmeno per rispetto, devozione, quasi paura. In quel Mondiale Lionel Messi ha cercato di fare tutto riuscendo in nulla, nemmeno a segnare un gol. Il paragone era lì, presente, vivo, forse troppo. Diego cercava di infondergli forza e leadership, allo stesso tempo voleva ancora tutta la ribalta, innescando un corto circuito in cui è saltato la Selección in aria. L’Argentina è arrivata ai quarti per forza d’inerzia, poi tutto si è disintegrato con la Germania che vince per 4-0. Messi a fine partita piange negli spogliatoi. Come farò a essere quella statua che urla, si dispera ma è amata anche nella sconfitta?

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Si va in Brasile, quattro anni dopo, Maradona non è più sulla panchina dell’Argentina, ma ha messo in campo l’idea del “pecho frio”, ovvero che Messi avesse una personalità nulla, in questo modo, secondo Maradona, non ha la possibilità di guidare gli altri alla vittoria di un Mondiale.
Brasile 2014 però è un Mondiale differente. Messi aveva messo nel mirino questo Mondiale fin dai suoi primi contratti con il Barcellona, chiedendo una serenità economica che arrivasse almeno fino al 2014, momento in cui lui sentiva di “dover fare il Maradona” e vincere.

Si fida inoltre del nuovo selezionatore, Alejandro Sabella e la squadra è molto buona. Sono nel prime Lavezzi, Higuain, Mascherano, Demichelis e la squadra vince, anche senza un Messi stratosferico. Segna sempre nelle tre partite del girone, poi amministra piccoli vantaggi negli ottavi e ai quarti per vincere una partita orribile contro l’Olanda ai rigori in semifinale. In finale un Paese intero vuole violare il tempio dei grandi avversari, vincere il Mondiale al Maracanã. Niente da fare anche stavolta. Ancora una volta la Germania vince con un gol di Götze al supplementare e, nonostante l’aver sfiorato il sogno, la bilancia pende ancora in maniera netta.

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Non si muove, anzi si sbilancia ancora di più dopo il 2018. Altro Mondiale incasinatissimo per Messi e l’Argentina. Dopo le prime due partite, pareggio con l’Islanda e sconfitta per 3-0 contro la Croazia, l’Argentina è con un piede fuori ai gironi e i calciatori sono contro l’allenatore, Sampaoli. Messi trascina la squadra di forza agli ottavi con un gol magnetico dove Mbappé e la Francia se la scrollano letteralmente di dosso. Il discorso è chiuso: Maradona era anima, corpo, cuore e cervello creativo della sua Argentina. Messi è tante cose per la squadra e i suoi compagni, ma non riesce a fagocitare l’intero mondo per metterselo sotto i piedi. Non vuole essere Maradona forse, quello è il mistero che non abbiamo mai risolto.

All’inizio di questo Mondiale in Qatar ormai il caso sembrava chiuso. Maradona intanto è morto, la sua legacy si è perfino espansa con l’assenza fisica, Messi ha lasciato il Barcellona in fiamme, è andato al Paris Saint Germain dove si dice sottovoce, ma si dice, che sia addirittura il terzo miglior giocatore della squadra. Come può pensare di essere il più grande di tutti proprio adesso?

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Questi sussurri diventano parole sempre più chiare dopo la prima partita del girone, persa addirittura contro l’Arabia Saudita, e dopo i primi 64 minuti di Argentina-Messico. Poi arriva una palla a 20 metri dalla porta del portiere messicano Ochoa, Messi la controlla di sinistro e la calcia a suo modo nell’angolo più nascosto alla sinistra di Memo. Una resurrezione. Quel gol che mette in strada un’Argentina sbandata cambia le cose e fa iniziare un nuovo cammino. Quel cammino, gol dopo gol, partita dopo partita, prestazione dopo prestazione, porta Messi in finale mondiale e fa riaprire i fascicoli dell’indagine: chi è il migliore?

Messi in questi Mondiali è sembrato maradoniano in tante cose, non prettamente di campo. Ma era proprio in questa dimensione specificatamente extra-tecnica che si notavano le differenze più grandi. Messi è stato un accentratore non per acquiescenza o benevolenza altrui, ma per monumentalità raggiunta e riconosciuta, non si è nascosto dietro i Mascherano, i Tevez, i Riquelme e ha messo la faccia cattiva, scontrosa, battagliera davanti a quella impassibile classica e a quella che indossa per pochissimi momenti di felicità dopo i gol segnati. La squadra lo ha percepito e non solo lo ha seguito e protetto, ma lo ha guardato con occhi nuovi, occhi amorosi e tremebondi, gli occhi di chi guarda per ammirare, farsi portare con mano e anche per crescere. Se fino a questo momento Messi è sembrato sempre il figlio di qualcuno e anche nel rapporto ideale con Maradona sembrava attendere il suo turno anche se si era ormai a fine turno, oggi è stato un Messi-padre, un leader che vuole essere ascoltato anche nel silenzio.

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Bisognava però togliere il dubbio e la partita di finale con la Francia non era un’appendice, era la fine del romanzo. E se sbagli il finale, magari hai scritto Guerra e Pace, ma chi legge e racconta ai posteri lo fa con quell’incaglio che strozza la gloria massima. Dopo più di mille partite e un numero spropositato di gol, Messi a fine carriera ha dovuto dimostrare in una sola partita di essere il miglior di tutti. Per tanti questa frase non ha alcun senso, un giocatore non si giudica in un arco di tempo così breve. Per tanti altri è la pura verità, perché alzare o non alzare quel trofeo, come ha fatto l’altro, cambiava le prospettive. Non ricordavamo un Mondiale così focalizzato su un singolo uomo e il suo percorso di crisi, rinascita e corsa verso l’infinito. Stasera Messi ha raggiunto l'infinito e tutti gli argentini possono da oggi in poi cantarne il nome insieme a Diego perché è lì sullo stesso trono, trono di grandezza e unicità.

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