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La prima volta di Eriksen: perché il gol al Milan può cambiare per sempre il suo destino all’Inter

Con la punizione segnata al 97′ del derby di Coppa Italia contro il Milan che è valsa la qualificazione alla semifinale da parte dell’Inter, Christian Eriksen ha siglato il suo primo gol stagionale. Dopo un anno esatto di Inter (arrivò il 28 gennaio 2020) e dopo solo 41 presenze e 5 gol, le tante voci di mercato e le critiche sulla mancanza di personalità, può diventare davvero l’arma in più di Conte.
A cura di Alessio Pediglieri
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La rete al 97′ in Coppa Italia contro il Milan, che è valsa la qualificazione alla semifinale del torneo, è stata al momento la più importante per Christian Eriksen nella sua attuale turbolenza avventura in nerazzurro. Il centrocampista danese, gettato nella mischia da Conte nella mezz'ora finale del derby, ha saputo trasformare una gara condannata ai tempi supplementari con una punizione perfetta, che non ha lasciato scampo a Tatarusanu infilandosi sotto la traversa per il 2-1 finale. Un colpo da biliardo che Eriksen da sempre ha ma che mai prima di martedì notte era riuscito ad esprimere in nerazzurro. Dopo un anno esatto (28 gennaio 2020) dal suo arrivo in nerazzurro.

Come si dice, la prima volta non si scorda mai. E per Eriksen il derby contro il Milan dei quarti di finale di Coppa Italia, rappresenta la classica prima volta ricca di spunti per poter credere – non solo a parole – nel rilancio in nerazzurro. Con la valigia in mano da settimane, mai realmente inserito negli schemi e nelle gerarchie di Antonio Conte, l'ex Tottenham si è ritagliato finalmente uno spazio di cielo tutto per sè, accarezzando la palla del successo che è valso la qualificazione.

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E' il primo centro in nerazzurro di questa stagione, una stagione ricca di critiche e dubbi, intrisa da voci di mercato che lo vogliono già via dopo 12 mesi dal suo clamoroso arrivo nell'inverno 2020, quando i nerazzurri lo pretesero dagli Spurs per metterlo sotto lauto contratto (7 milioni netti a stagione) indicandolo come l'elemento che avrebbe migliorato la squadra. Da quel gennaio 2020 è passato un anno e tanto c'è voluto perché il timido danese riuscisse a scrollarsi di dosso la seta per trasformarsi in farfalla.

Il volo è ancora lungo, nella testa di Conte Eriksen resta il giocatore introverso che deve ancora dimostrare tutto, sul quale si è deciso – giocoforza un mercato inconcludente – di ricamare una nuova veste tattica, da play basso in sostituzione di un Brozovic a corrente alternata e con il serbatoio limitato. Una necessità che per un istante si è trasformata in virtù: una punizione perfetta, che è sempre stata celata nel DNA del danese e che si è palesata nel momento più delicato della stagione. Entrato come ultima carta per sparigliare il banco, si è calato nella parte e ha dimostrato che quella timidezza tanto criticata può trasformarsi anche in freddezza.

Le tante – troppe – voci, attorno ad un rendimento decisamente negativo corroborato da disguidi tattici, schemi fissati e faticosamente rivisti, avevano fatto calare anche un velo di incertezza sulle reali qualità del nazionale danese. Ora, il riscatto che potrebbe trasformarsi in rinascita: non solo per il gol, essenziale per l'autostima, ma anche  – e soprattutto – il bagno d'affetto in cui l'hanno sommerso i compagni a significare l'unità di intenti e del gruppo.

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Dopotutto, quest'Inter ha necessità di avere il meglio da Eriksen e il momento è quello giusto perché il giocatore si riprenda ciò che  – anche per suoi demeriti – finora gli è stato negato: un ruolo da protagonista in una stagione in cui l'Inter è uscita allo scoperto e senza alibi per la corsa scudetto. La sua avventura non era iniziata male. A una manciata di settimane dal suo arrivo, il suo primo gol, in Champions contro il Ludogorets a febbraio 2020 (0-2), poi le lunghe pause e un'assenza interrotta in Coppa Italia – che porta bene al danese – con la rete (inutile ai fini della qualificazione) al Napoli nell'1-1 della semifinale di ritorno, a giugno.

Quindi, la replica in campionato, partecipando alla goleada di San Siro di luglio contro il Brescia (6-0), la replica in Europa League al Getafe ad agosto (2-0), quindi di nuovo il silenzio. Troppo poco per confermarsi degno delle aspettative, con insistenti voci di addio, poi ribadite dalle frizioni tattiche con Conte in difficoltà a inserirlo nei propri schemi. Il black-out, le continue minime presenze in campo (in un anno ha giocato tra tutte le competizioni la pochezza di 1.591 minuti, 41 presenze per lo più in ritagli di match).

La timidezza in campo, la professionalità fuori. Al di là delle critiche e delle (presunte) umiliazioni, mai una parola fuori posto, mai una polemica o una protesta. Anche quando giocava briciole inutili di finali di partita. Come poteva essere martedì sera contro il Milan in un derby destinato ai supplementari o ai rigori, in cui Conte lo ha inserito all'88'  e dal quale ne è uscito vincitore 9 minuti più tardi. Prendendosi la responsabilità dell'ultima punizione, calciandola nel ‘sette', regalando la qualificazione all'Inter. E regalandosi la gioia di sentirsi finalmente parte di qualcosa di importante.

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