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Salvini vuole circoscrivere il reato di tortura ma l’Italia è già stata condannata per maltrattamenti da parte della Polizia

Il vicepremier Matteo Salvini rilancia l’ipotesi di “circoscrivere” la legge sul reato di tortura, ma i casi di Santa Maria Capua Vetere e ancor prima di Marassi e i moniti della Corte europea dei diritti dell’uomo ne confermano l’assoluta necessità.
A cura di Francesca Moriero
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"Rivedere, circoscrivere e precisare" il reato di tortura. Con queste parole il vicepremier e ministro dei Trasporti Matteo Salvini rilancia l’ipotesi di cambiare una legge che in Italia è arrivata solo nel 2017, dopo anni di battaglie e di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo. Una norma nata per colmare un vuoto giuridico e morale, e per rispondere ad episodi drammatici come i pestaggi alla scuola Diaz e nel carcere di Bolzaneto durante il G8 di Genova, rilanciata dalle ferite dei casi di Santa Maria Capua Vetere e Reggio Emilia, e più di recente dal dramma nel penitenziario di Marassi. Oggi, mentre Salvini rivendica come priorità per la Lega una stretta sul reato di tortura, si riapre un dibattito che chiama in causa lo Stato di diritto, la trasparenza e la responsabilità dei suoi apparati.

Dal G8 di Genova alla legge sul reato di tortura

Genova G8 - 2001
Genova G8 – 2001

La genesi della legge è legata ad una ferita mai rimarginata: i fatti della Diaz e di Bolzaneto del luglio 2001, durante il G8 di Genova. Le violenze e i pestaggi compiuti allora dalle forze dell'ordine sono stati definiti dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo come veri e propri episodi di tortura, aggravati dal contesto e dal tentativo di insabbiamento dei vertici della Polizia. Michelangelo Fournier, allora vicequestore, descrisse ciò che vide come ‘una macelleria messicana'. Disse poi anche "fu una tonnara". Fu la Corte di Strasburgo a richiamare più volte l'Italia per la mancanza di una norma specifica sulla tortura, mancanza che, fino al 2017, rese impossibile perseguire efficacemente chi commetteva abusi. In Italia, in sostanza, il reato non esisteva ancora, e i responsabili non fecero un giorno di carcere.

La legge sul reato di tortura è arrivata infatti solo nel luglio 2017, dopo un iter lunghissimo e travagliato. Così la legge 110/2017 inserì nel Codice penale due articoli cruciali: il 613-bis, per cui chi, con violenze o minacce gravi, infligge acute sofferenze a una persona privata della libertà, è punito con pene da 4 a 10 anni. E il 613-ter, che dice che chi istiga alla tortura è punito con pene da 6 mesi a 3 anni. Fin dal principio, però, la norma è stata contestata e percepita ancora come un fragile punto di equilibrio. Luigi Manconi, promotore della legge, si astenne addirittura dal voto finale, definendo quella versione "mediocre".

Le prime applicazioni e i casi simbolo

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La prima condanna per tortura in Italia è arrivata nei primi giorni di gennaio 2021 a Ferrara, a carico di un agente penitenziario accusato di aver torturato ripetutamente un detenuto; da lì si è aperta una strada giuridica che ha permesso di portare alla sbarra episodi altrimenti invisibili. Santa Maria Capua Vetere è l’esempio più eclatante: il 6 aprile 2020, nel pieno della pandemia, circa 300 detenuti furono pestati e a sangue e umiliati dalla polizia penitenziaria in risposta a una protesta scaturita dal timore di un contagio di Covid-19. Le immagini dei pestaggi, diffuse in esclusiva dal quotidiano Domani, scossero l'opinione pubblica e portarono al rinvio a giudizio di 105 persone. A Reggio Emilia, nell'aprile 2023, un detenuto tunisino è stato bendato e pestato per diversi minuti: le immagini, ancora una volta diffuse dal quotidiano Domani hanno fatto si che a chiamare a rispondere siano stati dieci agenti, accusati di tortura, lesioni e falso. A Genova, nel carcere di Marassi, solo poche settimane fa, un ragazzo di 18 anni è stato violentato, seviziato e torturato per tre giorni da alcuni compagni di cella. Un caso che mette in luce come la tortura non sia solo opera dei "tutori dell’ordine", ma possa coinvolgere chi è affidato alla custodia dello Stato e viene abbandonato al suo destino.

Le pressioni politiche per cambiare la legge

Se la legge sulla tortura è stata accolta come una conquista di civiltà, oggi sembra essere tornata nel mirino dei partiti di destra: ad agosto 2023 Fratelli d’Italia e Lega avevano già proposto di trasformarla in una semplice aggravante dei reati comuni, svuotandola così della sua portata simbolica e giuridica; poco dopo, a febbraio 2024, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, pur assicurando di voler "adeguare" la norma alla Convenzione di New York, rilanciava argomenti cari alla destra, ritenendo la legge “sproporzionata” e "confusa". Anche secondo alcuni sindacati, come la UILPA Polizia Penitenziaria, la norma oggi è scritta male e finirebbe per perseguire chi è chiamato a gestire situazioni critiche e violente.

Ma è davvero così? Le principali realtà impegnate sul fronte dei diritti umani, come Amnesty International, Antigone e A Buon Diritto, la pensano diversamente: già nel 2023 e nel 2024, avvertivano che indebolire la norma significava rallentare, o addirittura compromettere, processi in corso, proprio come quelli di Santa Maria Capua Vetere e Reggio Emilia, riportando il sistema penitenziario nell'opacità e nell'impunità.

Codici identificativi e trasparenza

A rendere più difficile l'accertamento dei fatti è la mancanza dei codici identificativi alfanumerici per gli agenti di Polizia e Polizia Penitenziaria. Da anni la società civile, le associazioni per la tutela dei diritti, e diversi partiti dell’opposizione chiedono che vengano apposti visibilmente sulle divise e sui caschi dei membri delle forze dell’ordine. Una richiesta che viene rilanciata dopo ogni episodio di pestaggio ai danni di manifestanti o di detenuti, sollecitata anche dal Consiglio d’Europa. La richiesta di rendere riconoscibili e identificabili gli agenti delle forze di polizia è sul tavolo del Parlamento da oltre dieci anni: già dal 2013, e poi nel 2014, sono stati depositati diversi disegni di legge con l'obiettivo di dotare chi opera in divisa di un codice alfanumerico visibile, così da garantire trasparenza e responsabilità. L'ultima discussione approfondita si è svolta nel maggio 2017 in Commissione Affari Costituzionali, ma il tema è rimasto fuori dal calendario dei lavori e si è arenato. Qualche mese prima, nel febbraio dello stesso anno, si era ipotizzata l’introduzione dei codici nell’ambito di una modifica al Decreto Minniti, ma l’opzione venne nuovamente accantonata per ragioni tecniche.

Da allora, la proposta è ricomparsa più volte come emendamento ad altri provvedimenti di legge (ad esempio nel ddl 1079), rilanciata trasversalmente da diversi parlamentari, senza mai, però arrivare a un’approvazione definitiva.

Le condanne dell'Italia e l'obbligo di rispettare l'art. 3 CEDU

Le resistenze politiche si scontrano però con una realtà giuridica chiara e vincolante: l’Italia è stata condannata più volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea, che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti. L’ultima pronuncia è arrivata il 5 giugno di quest'anno, nel caso Cioffi vs Italia, quando la Corte ha accertato come, pur dopo aver introdotto la legge sul reato di tortura, il nostro Paese non sia riuscito ad assicurare assolutamente punizioni efficaci e proporzionate ai responsabili dei maltrattamenti.

La sentenza sottolineava, ancora una volta, "l'obbligo per l'Italia di introdurre una legge specifica che configuri il reato di tortura, in modo da punire adeguatamente tali comportamenti, come già richiesto dalla stessa Corte in passato e ribadisce l'importanza del divieto di tortura e dei doveri degli Stati membri del Consiglio d'Europa di proteggere l'integrità fisica e morale di tutti gli individui, anche durante le operazioni di polizia".

Le reazioni politiche: "Salvini pensi ai trasporti"

Le parole di Salvini sulla volontà di mettere mano al reato di tortura hanno scatenato immediatamente la dura replica delle opposizioni: "Giù le mani dal reato di tortura. Il ministro Salvini dovrebbe occuparsi di trasporti e non di altro" ha affermato la senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra, Ilaria Cucchi: "Vorrei fargli presente che non sono tutti gli agenti ad essere etichettati come “torturatori”, ma solo quelli perseguiti penalmente per questo reato. Non permetteremo che ci si metta mano per pura propaganda politica. Il mio pensiero va a tutte le vittime di tortura, a partire da quelle della mattanza nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere, e la mia solidarietà va anche ai magistrati che con la schiena dritta non si fanno intimidire".

Ancora più duro Marco Furfaro, deputato e componente della segreteria nazionale del Partito Democratico, che bolla Salvini come "il ministro più inutile della Repubblica". "Salvini ormai non conta più niente. Ne sono consapevoli persino nel governo, visto che Giorgia Meloni prova a dialogare con Azione pur di non rivolgersi alla Lega. Da quando è al governo, Salvini è riuscito solo a collezionare sconfitte: dal terzo mandato, bocciato, alla mancata autonomia differenziata e all’abolizione della legge Fornero. È il ministro dei trasporti, ma l’unico trasportato è lui, a fatica, dalla pazienza degli italiani e persino dei suoi alleati. È e resterà il ministro dei disagi per milioni di pendolari".

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