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Referendum costituzionale 20 e 21 settembre 2020

Referendum sul taglio dei parlamentari, perché votare Sì e perché votare No: guida per indecisi

Nella giornata di oggi domenica 20 e in quella di domani lunedì 21 settembre si voterà per il referendum confermativo sulla riforma costituzionale che taglia il numero dei parlamentari: i cittadini sono chiamati a scegliere se portare da 630 a 400 i deputati elettivi e da 315 a 200 i senatori elettivi, confermando la riforma Fraccaro, approvata in Parlamento ad ampia maggioranza. Ecco una guida last minute per indecisi con le ragioni del Sì e quelle del No per valutare i pro e contro prima di andare a votare.
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Oggi domenica 20 settembre dalle 7 alle 23 e domani lunedì 21 settembre dalle 7 alle 15 sono aperti i seggi per il referendum sul taglio dei parlamentari, tecnicamente la conferma della cosiddetta riforma Fraccaro, approvata in Parlamento dalla quasi totalità delle forze politiche. Dal risultato del voto dipenderà la modifica alla Carta costituzionale, in questa breve guida proveremo a raccontare quali sono le ragioni del Sì, le ragioni del No, e infine a riepilogare le posizioni dei partiti e come hanno votato in Parlamento.

I cittadini italiani saranno chiamati a votare per il referendum popolare confermativo sul testo di legge costituzionale pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 12 ottobre del 2019, che riguarda il taglio dei parlamentari. Come noto, la riforma prevede una riduzione da 630 a 400 del numero dei deputati e da 315 a 200 di quello dei senatori elettivi: a tal fine, la legge di cui si chiede la conferma modifica gli articoli 56, secondo comma, e 57, secondo comma, della Costituzione, oltre che dell'articolo 58. Nella nostra guida al referendum costituzionale vi abbiamo spiegato nel dettaglio cosa cambierebbe nel caso siano confermate le modifiche votate dal Parlamento e quale sarebbe la nuova conformazione istituzionale, ora proveremo ad analizzare le ragioni del Sì e quelle del No. Preliminarmente, però, si rende necessaria qualche considerazione di carattere storico – strutturale, in modo che possiate avere tutti gli elementi per prendere la decisione giusta il 20 e 21 settembre.

Cominciamo col dire che l’Assemblea Costituente non aveva previsto un numero fisso di deputati e senatori, ma un “rapporto numerico costante” tra numero di abitanti e parlamentari. Nello specifico, si prevedeva un deputato ogni 80.000 abitanti o frazione superiore a 40.000 abitanti, e, per ogni Regione, un senatore ogni 200.000 abitanti o frazione superiore a 100.000 abitanti, con un minimo di sei senatori (a eccezione della Valle d’Aosta, che avrebbe avuto un solo rappresentante). Con la legge costituzionale del 1963, poi, venne fissato in 630 il numero di deputati e in 315 quello dei senatori effettivi, portando a 96mila il rapporto fra popolazione e deputati e a 188mila quello fra popolazione e senatori. Con la modifica proposta in questo referendum, il numero medio di abitanti per ciascun deputato sarà di 151.210, quello per ciascun senatore di 302.420 (la riforma prevede un minimo di 3 senatori per Regione o Provincia Autonoma, due per il Molise e uno per la Valle d’Aosta).

Di conseguenza, la conformazione di seggi e rappresentanza per popolazione diventerà questa per la Camera dei deputati (nelle prime due colonne la situazione attuale, nella terza e quarta la previsione della riforma, nella quinta la percentuale di riduzione dei seggi, FONTE: Servizio Studi Senato della Repubblica):

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E questa per il Senato della Repubblica:

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Perché è così importante che si voti il 20 e 21 settembre

C’è un’ulteriore questione da considerare, prima di scendere nel dettaglio sulle motivazioni del sì e del no, ed è quella relativa all’abbinamento del referendum costituzionale con le Elezioni Regionali e Amministrative. Come noto, la richiesta di referendum confermativo (sottoscritta da un congruo numero di senatori, come disciplinato dall’articolo 138 della Costituzione) è stata depositata il 10 gennaio 2020, per essere dichiarata poi ammissibile dall’Ufficio centrale del referendum della Corte di Cassazione il 23 gennaio 2020. La legge indica che la data della consultazione referendaria debba cadere in una data compresa fra 50 e 70 giorni dall’indizione del referendum da parte del Presidente della Repubblica (che ha 60 giorni di tempo dal via libera dell’ufficio centrale). In un primo momento, il Consiglio dei ministri aveva indicato la data del 29 marzo, per poi revocare tale decisione in seguito all’emergenza Covid-19 (successivamente, con il decreto del 17 marzo, il termine di indizione del referendum è stato prorogato a 240 giorni). A luglio la decisione di accorpare referendum e consultazioni elettorali al 20 e 21 settembre: scelta non priva di conseguenze, poiché destinata a influenzare l’affluenza al voto, con prevedibile disomogeneità territoriale e conseguenti implicazioni sull’esito finale.

Anche per questo motivo c’erano stati diversi ricorsi sull’indizione del referendum, tutti giudicati inammissibili dalla Corte Costituzionale, perché i soggetti promotori (Comitato No, Regione Basilicata e senatore De Falco) non avrebbero legittimazione soggettiva a sollevare conflitti di questo tipo, oppure non sarebbero stati lesi nelle loro prerogative.

Come voteranno i partiti al referendum 2020 e come hanno votato in Parlamento

Come noto, nel corso degli anni ci sono stati diversi tentativi di riformare la Costituzione per quel che concerne struttura, compiti e ruolo delle due Camere. Limitatamente a questa legislatura, va detto che la riduzione del numero dei parlamentari compare anche nei documenti programmatici del governo Lega – M5s (qui nella NADEF 2018), come obiettivo prioritario per “consentire apprezzabili risparmi di spesa e rappresentare uno strumento essenziale per migliorare i processi decisionali della Camere”. La discussione su un testo che unificava 3 proposte di legge comincia dunque quando al governo vi sono Lega e M5s, con il primo voto al Senato il 7 febbraio 2019: in quell’occasione i Sì sono 185, i No 54 e gli astenuti 4. La Camera approva il 9 maggio il testo in prima deliberazione e senza modifiche con 310 Sì, 107 No e 5 astenuti.

In questa fase, a favore della riforma votano Movimento 5 Stelle, Lega, Fratelli d’Italia, parte di Forza Italia (5 deputati votano contro) e alcuni parlamentari del gruppo Misto; contrari il PD, SvP, Liberi e Uguali, 7 deputati e 9 senatori del Misto.

Il testo viene approvato in seconda lettura al Senato l’11 luglio con 180 favorevoli e 50 contrari, sempre con gli stessi orientamenti da parte delle forze politiche.

Il quadro cambia radicalmente ad agosto del 2019, con il ribaltone che porta al Governo Conte II a maggioranza M5s – PD – LeU – Italia Viva. L’8 ottobre 2019, infatti, la Camera dei deputati approva in seconda deliberazione la proposta di legge costituzionale con 553 Sì e 14 No (+Europa, Noi con l’Italia e alcuni “dissidenti”). In conseguenza dell'accordo di governo, dunque, il PD e le altre forze di centrosinistra scelgono di sostenere la riforma Fraccaro (senza modifiche) in cambio dell'impegno del Movimento 5 Stelle di inserirla "dentro un quadro di garanzie istituzionali e costituzionali” (Zingaretti), che si sarebbe dovuto tradurre in “riforme precise e garanzie, frutto di un lavoro serio” (Delrio). Si tratta dei famosi “correttivi” su cui torneremo più avanti.

Dunque, tutte le forze politiche italiane voteranno Sì domenica 20 e lunedì 21 settembre? No, perché nel frattempo le cose sono cambiate ancora una volta.

  • Il Movimento 5 Stelle voterà per il Sì e, nei fatti, si sta sobbarcando quasi da solo l’intera campagna referendaria, con banchetti informativi e altre iniziative pubbliche.
  • La Lega voterà per il Sì, come confermato recentemente da Matteo Salvini in un’intervista a Fanpage.it. All’interno del Carroccio vi sono però anche posizioni differenti, con il No pesantissimo di Giancarlo Giorgetti e quello probabile di Attilio Fontana.
  • Fratelli d’Italia è per il Sì, con Giorgia Meloni che rivendica la coerenza di una battaglia storica della destra italiana e spinge per la trasformazione dello Stato in senso presidenzialista.
  • Più complicata la situazione del Partito Democratico, che ha formalizzato il proprio impegno per il Sì con un ordine del giorno votato in Direzione Nazionale (188 favorevoli, 13 contrari, 8 astenuti e 11 non partecipanti al voto). Sono molte però le voci dissonanti, anche fra coloro i quali hanno votato per la Fraccaro in seconda lettura alla Camera: quel voto, spiegano, era subordinato a correttivi che ancora non sono giunti o che vanno nella direzione opposta a quella auspicata al momento dell’accordo.
  • Forza Italia vive una situazione simile: dopo i 4 sì in Parlamento, la riflessione pre-voto ha prodotto solo dubbi, condivisi anche da Silvio Berlusconi. Dunque, i forzisti sono divisi fra il Sì “ufficiale”, il No di alcuni big (Malan, Bernini) e la libertà di scelta.
  • Italia Viva è più o meno nella stessa situazione: ufficialmente lascia libertà di scelta ai propri elettori, mentre Renzi sostiene che la riforma “è uno spot che non risolve il problema del bicameralismo perfetto”.
  • Divisioni anche in Liberi e Uguali, con Bersani per il Sì, mentre Grasso e altri sono per il No.
  • Azione di Carlo Calenda vota no (e qui ci ha spiegato perché), così come +Europa (qui la nostra intervista a Riccardo Magi).
  • Voterà No anche Sinistra Italiana, seguendo l'appello di alcuni noti costituzionalisti.

Le ragioni del Sì al referendum costituzionale

Cominciamo col dire che il taglio del numero dei parlamentari non nasce con questa legislatura, ma è stato nel tempo proposto dalla quasi totalità delle forze politiche che ora siedono in Parlamento. Senza addentrarci troppo indietro nel tempo, segnaliamo come la riduzione dei parlamentari fosse obiettivo della riforma del centrodestra del 2006 (bocciata dagli italiani col referendum del 25 e 26 giugno), ma anche di quella impostata da Renzi nel 2016 (sempre bocciata dagli italiani il 4 dicembre). Certo, entrambe le riforme inserivano la riduzione dei parlamentari in disegni complessivi, ma non va dimenticato che il testo su cui gli elettori saranno chiamati a esprimersi il 20 e 21 settembre è praticamente identico a quello proposto nel 2008 dai senatori Zanda e Finocchiaro, che appunto prevedeva il taglio a 400 deputati e 200 senatori. Insomma, per farla breve: da sempre tutte le forze politiche sono favorevoli a una riduzione dei parlamentari, sul punto c'è un'ampia convergenza che non si è mai concretizzata solo perché la modifica del numero di parlamentari è sempre stata inserita in contesti più ampi. In tal senso, i fautori del Sì sottolineano come questo Parlamento abbia espresso quasi l'unanimità rispetto al taglio, esprimendo una volontà univoca di cui sarebbe giusto tenere conto. È paradossale che la quasi totalità degli oltre settanta senatori che hanno firmato per il referendum abbiano poi votato sì alla riforma nei passaggi parlamentari.

Un elemento che qualifica la campagna per il Sì è piuttosto semplice: 945 parlamentari (+ i senatori a vita) sono troppi. Una nota diffusa dal M5s spiega che l’alto numero di deputati e senatori rende più difficile il lavoro legislativo, perché porta “inevitabilmente ad una maggiore frammentazione tra svariati gruppi parlamentari, che a volte non rappresentano le principali forze politiche presenti nel paese ma gruppetti che servono solo a organizzare la sopravvivenza sulla poltrona”. Un numero inferiore di parlamentari ridurrebbe anche i gruppi, abbattendo “il rischio di un dibattito infinito e troppo frastagliato”, tanto in Aula quanto nelle Commissioni parlamentari.

Il risparmio dei costi della politica

Un elemento centrale della campagna per il Sì è quello legato al risparmio derivante dalla diminuzione del numero degli eletti. Tagliare i parlamentari significa infatti anche risparmiare sulla quota per indennità, spese per l’esercizio del mandato e rimborsi spese di senatori e deputati, oltre che diminuire, sia pure in minima parte, i costi fissi di Camera e Senato. Non è semplicissimo fare una stima dei costi in meno: qui AGI quantifica in circa 80 milioni l'anno i risparmi derivanti dal passaggio a 600 parlamentari (cui si andrebbero a sommare altri costi indiretti), per un totale di circa 400 milioni a legislatura; l'analisi dell'Osservatorio Conti Pubblici di Cottarelli, invece, segnala come sia necessario scorporare da questa cifra le imposte e i contributi pagati dai parlamentari allo Stato (che dunque rientrerebbero), portando a circa 57 milioni annui il risparmio, per un totale di 285 milioni di euro a legislatura. In entrambi i casi, spiegano i sostenitori del Sì, siamo di fronte a risparmi considerevoli, che rappresenterebbero anche un segnale della serietà e morigeratezza di una politica finalmente capace di autoriformarsi.

Meno parlamentari per lavorare meglio

Un ridotto numero di parlamentari inciderebbe anche sui tempi e sulle dinamiche di lavoro, nella lettura dei sostenitori del Sì. Questo perché sarebbero velocizzati anche i lavori nelle Commissioni, che spesso determinano lungaggini e intoppi più dei lavori di Aula (dove comunque i tempi sono contingentati). Del resto, la lentezza dell’iter legislativo è uno dei problemi endemici del nostro Paese, come evidenziato dal report di OpenPolis che mostra come in Italia il tempo di approvazione di una legge possa variare dai 6 ai 17 mesi. Snellire e velocizzare sono obiettivi fondamentali per un Paese con questi dati:

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Perché votare sì al taglio del numero dei parlamentari

Il taglio dei parlamentari è effettivamente una riforma proposta o sostenuta nel corso degli anni dalla quasi totalità delle forze politiche italiane. In questa legislatura, il Parlamento ha deciso di autoriformarsi a larghissima maggioranza, mandando un segnale che i cittadini sembrano aver recepito in pieno, come testimonia anche lo scarso numero di firme raccolte per l’indizione del referendum. Non è una questione secondaria, come spiega Valerio Onida, "perché trattandosi di modificare la Costituzione il voto concorde delle diverse forze politiche, di maggioranza e di opposizione, rappresentate in Parlamento dovrebbe di massima essere la regola o comunque essere altamente desiderabile, specie in tempi di forti e aspre contrapposizioni politiche, in  cui la Costituzione dovrebbe più che mai restare terreno comune di intesa e di concordia".

In una situazione di questo genere, smentire con il voto popolare il voto, si può dire, della totalità delle forze politiche rappresentate nelle Camere equivarrebbe a “sfiduciare” il Parlamento e l’intero sistema politico.

Non esiste un vero problema di rappresentanza: 965 era il numero di scelto nel 1963, quando il Parlamento era essenzialmente l’unica assemblea che in qualche modo rappresentava attivamente i cittadini, mentre oggi abbiamo più livelli, da quello regionale a quello europeo, che lo accompagnano nel processo legislativo. Peraltro, spiegano i sostenitori del Sì, si tratta di fare solo un primo passo sulla strada delle riforme, nella consapevolezza che “lo status quo è indifendibile”.

Non c’è alcun vulnus democratico, perché la democrazia non può dipendere direttamente dal numero di parlamentari eletti. Non esiste il rischio di un Parlamento “controllabile” perché proprio il numero più ristretto di eletti rende più semplice il rapporto coi cittadini, come ha spiegato Ceccanti a Fanpage.it: “Se io oggi chiedessi a una qualsiasi persona chi sono tutti i parlamentari eletti nella sua zona, dubito che ne riconoscerebbe più di due o tre”. Per i 5 Stelle, inoltre, diminuire i parlamentari significa anche tagliare sprechi, privilegi ma soprattutto clientele e nepotismi, problemi endemici delle nostre istituzioni. Negli anni ci è toccato fare i conti con assenteisti, raccomandati, fannulloni e rappresentanti non degni, che hanno lasciato a poche decine di persone il compito di portare avanti il processo legislativo e di garantire la rappresentanza dei cittadini: in tal senso, la politica può e deve darsi una regolata, a partire dal numero di eletti.

Il tema dei costi non è secondario: si risparmiano centinaia di milioni di euro a legislatura, senza intaccare il processo democratico e senza incidere sulla macchina dello Stato. Peraltro, appare improprio parlare di risparmi risibile effettuando paragoni con l’interezza della spesa pubblica o della spesa per le altre istituzioni: la riforma riguarda solo ed esclusivamente il Parlamento e va a incidere in modo considerevole sui relativi bilanci.

Parentesi: il confronto con gli altri Paesi Europei sul numero dei parlamentari

Deputati e senatori sarebbero troppi anche in rapporto agli altri Paesi e con la riforma l’Italia si adeguerebbe alla media europea. La questione è molto complessa e di non univoca interpretazione, proviamo ad affrontarla partendo da alcuni punti fermi e incontrovertibili. In Europa, l’Italia è il Paese con il numero più alto di parlamentari direttamente eletti dal popolo, seguita dalla Germania con circa 700 parlamentari, dalla Gran Bretagna con circa 650 e poi dalla Francia con circa 600. In dati assoluti, la situazione è la seguente (FONTE):

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L’approccio migliore, tuttavia, è quello di comparare dati il più possibile omogenei, dunque converrà scorporare l’analisi tra “Camere basse” (tutte elettive dirette) e “Camere alte” (i differenti Senati, ove presenti). Relativamente alla Camera bassa, dunque, l’Italia presenta un deputato ogni 96mila abitanti, mentre la Francia (dove nel maggio 2018 il Governo ha presentato una proposta per la riduzione di circa un terzo dei parlamentari) e la Germania uno ogni 116mila, il Regno Unito uno ogni 102mila, la Spagna uno ogni 133mila. Con la riforma, l’Italia si collocherebbe “in testa” alla graduatoria a livello europeo, con un deputato ogni 151mila abitanti.

Il raffronto con le Camere alte si presenta oggettivamente più complicato, in ragione della diversa infrastruttura istituzionale fra gli Stati (monocameralismo, eletti di secondo livello, rappresentanze regionali e via discorrendo). Possiamo comunque dire che al momento l’Italia ha un senatore ogni 190mila abitanti circa, dato simile a quello francese, belga e spagnolo: con la riforma, avremo un senatore ogni 300mila abitanti circa.

Le ragioni del No al referendum costituzionale

Il fronte del No al referendum è trasversale ai partiti e agli schieramenti politici, ma è unito nel considerare questa consultazione come “una truffa”, perché lascia intendere che il via libera alla riforma possa avere un potere taumaturgico rispetto ai tanti problemi legati al funzionamento delle nostre istituzioni. Il primo punto su cui si concentra l’attenzione degli oppositori alla Fraccaro è quello relativo ai risparmi risibili che il taglio dei parlamentari andrebbe a determinare, dal momento che la riforma non incide su stipendi, emolumenti e trattamenti pensionistici dei deputati e dei senatori, ma soprattutto non modifica l’architettura costituzionale in profondità. Le cifre sono basse in valore assoluto, parliamo dello 0,007 per cento della spesa pubblica italiana, dunque la domanda da porci è: perché tagliare proprio sui costi della democrazia?

Il problema della rappresentanza

Nella lettura dei sostenitori del No, la riforma Fraccaro compromette la rappresentanza e non tutela i cittadini italiani, in nome di un concetto controverso come quello di “governabilità”. Questo prima di tutto dal punto di vista numerico. Ad esempio, la riduzione media del tasso di rappresentanza al Senato della Repubblica è del 36,5%, con punte superiori al 50% per le piccole Regioni. Questo dato, a livello provinciale o sub-regionale, si tradurrebbe nell’esclusione dei territori meno popolosi da ogni possibilità di eleggere un proprio rappresentante, con uno scollamento maggiore fra eletti e territorio, proprio perché un deputato avrebbe una porzione molto più ampia di elettori da rappresentare. La rappresentanza, in questa lettura, dipende dal rapporto tra elettori ed eletti proprio nella misura in cui al di sotto di un certo livello “si determinerebbero squilibri nella composizione degli organi di garanzia e nei meccanismi di funzionamento delle stesse istituzioni rappresentative” (qui un'analisi di senso), oltre che in un sottodimensionamento dei referenti dei piccoli territori.

I correttivi alla riforma della Costituzione

La ragione del Sì del Partito Democratico risiede nella necessità di fare “un primo passo” per cambiare lo status quo e nella rassicurazione sui correttivi ai probabili effetti collaterali della riforma (ad esempio una legge elettorale che non alzi eccessivamente la soglia di sbarramento implicita per l’elezione dei senatori). La ratio dietro questa linea è piuttosto ambigua, perché si chiede a leggi ordinarie di “disinnescare” aspetti potenzialmente pericolosi della Carta Costituzionale: un’inversione delle fonti quantomeno singolare, che rischia di rappresentare un precedente pericoloso. Peraltro, si sottolinea, la legge elettorale su cui sembra esserci l’accordo nella maggioranza prevede le liste bloccate, che ridurrebbero ulteriormente il peso e il valore del voto dei cittadini, rafforzando ancora di più quello dei partiti. Un Parlamento di pochi nominati, per giunta deboli, che paradossalmente vedrebbero il loro peso specifico salire a causa del ridotto plenum di Aula e Commissioni.

La sola modifica dei regolamenti parlamentari, inoltre, non può bastare per intervenire su quello che da molti è considerato il vero problema del nostro Paese, ovvero il bicameralismo paritario, vera e propria anomalia strutturale.

Parlamentari più controllabili

È il grande terreno di scontro tra i sostenitori del Sì e del No. Meno parlamentari significa maggiore possibilità di controllo da parte dei leader politici e la messa in discussione definitiva dell’autonomia degli stessi rappresentanti dei cittadini? Per chi invita a votare No questo è lapalissiano, specie se abbinato a un meccanismo elettorale che sposta il peso della scelta nelle stanze dei partiti, eliminando preferenze e collegi uninominali che garantiscono un rapporto diretto tra eletti ed elettori. Un Parlamento composto da politici che devono la loro elezione esclusivamente alle decisioni degli organi di partito è più debole e meno autorevole, ma soprattutto più esposto a pressioni di lobby e gruppi di interesse.

Perché votare no al referendum costituzionale 2020

Il taglio dei parlamentari, senza un contesto più ampio o un progetto di ampio respiro, è una misura spot, buona per alimentare il fuoco dell’antipolitica e per mostrare agli italiani che se una cosa non funziona come dovrebbe, allora è possibile farne a meno, pazienza se si tratta di fondamenta costituzionali. La misura, infatti, non incide né sul processo legislativo (restano il bicameralismo paritario e le lungaggini della “macchina” parlamentare), né sull’autorevolezza dell’istituzione, né sulla selezione della classe dirigente, se non in misura contraria a quella auspicata: deputati e senatori saranno meno liberi e sempre meno legati al territorio. Inoltre, come spiega Riccardo Magi a Fanpage.it, quando si riduce il plenum di un’assemblea, si creano delle soglie di sbarramento implicite che sono un limite al pluralismo democratico.

Non esiste al momento un vero problema legato al numero dei parlamentari, perché le differenze con gli altri Paesi europei sono minime e giustificate dalla conformazione territoriale e dalla storia del nostro Paese. Piuttosto si creerebbe un problema di rappresentanza, perché si renderebbe diseguale lo stesso voto dei cittadini delle diverse regioni italiane, con una penalizzazione evidente di quelle meno popolose. In più, come nota Riccardo De Vito, ciò avrebbe effetti distorsivi anche sulla “tipologia” degli eletti, perché “ci troveremo di fronte a macro-collegi nei quali i candidati dovranno confrontarsi con grandi porzioni di territorio e con un grande numero di elettori. Più concretamente, significa che a correre con probabilità di successo potranno essere solo due tipologie di candidati: quelli dotati di un patrimonio misurabile in cospicue risorse economiche e quelli muniti di un altro tipo di patrimonio, apprezzabile in termini di “potere” nell’organizzazione di appartenenza, conformismo alle decisioni del capo, attitudine alla disciplina di partito".

Se davvero si vuole risparmiare sui costi della politica, bisognerebbe guardare ai privilegi, agli sprechi e alle indennità eccessive che spettano agli eletti e ai rappresentanti istituzionali: una modifica di ampio respiro che non si limiti a una sforbiciata risibile dei costi di Camera e Senato. In generale, la non eccelsa prova di se che la politica ha dato in alcuni frangenti non legittima un taglio lineare, che va a incidere anche sull'assetto futuro del Parlamento.

I consigli di Fanpage.it per il voto al referendum

Se sei arrivato fin qui, evidentemente non avevi le idee chiarissime su come votare al referendum, dunque speriamo di esserti stati di aiuto. Questa campagna elettorale per il referendum costituzionale è stata in effetti piuttosto peculiare, con pochi spazi di discussione e una sovrapposizione con temi di enorme rilevanza (la questione Covid-19, la riapertura delle scuole e ovviamente le Elezioni Regionali e Amministrative) che si sarebbe dovuta evitare. Gli italiani arrivano a un appuntamento elettorale di grande rilevanza in un clima di incertezza e paura, con informazioni scarse e spesso drogate di propaganda e disinformazione: il rischio è quello di un'affluenza alle urne molto bassa e disomogenea fra le diverse aree del Paese. In questo contesto, dunque, dobbiamo fare uno sforzo ulteriore per recarci alle urne in modo libero, informato e consapevole, per decidere del destino della nostra Carta Costituzionale. Qualunque scelta tu faccia, compresa quella di non recarti alle urne, non dovresti prenderla alla leggera, ma ponderarla in tutta la sua rilevanza. Non siamo di fronte a una partita di calcio su cui dividersi in tifoserie, ma a una modifica rilevante della struttura delle nostre istituzioni: qualunque sia la scelta, che avvenga in modo consapevole e ragionato.

Ci preme sottolineare anche un altro punto: è nell’interesse di tutti che dal voto del 20 e 21 settembre esca rafforzata la politica nel suo complesso, nel suo senso più alto e profondo. Nella relazione finale della Commissione del 2013, ci si rammaricava di come uno degli errori di percezione dei cittadini nascesse dal fatto che "nel dibattito pubblico il tema della riduzione del numero dei parlamentari fosse connesso a quello del costo delle attività politiche, confondendo così questo piano con quello dei costi della democrazia”. Ecco, immaginare che il taglio dei parlamentari sia un taglio a qualcosa di comunque inutile e dannoso sarebbe un errore, chiunque vinca. Il 20 e 21 settembre vota per la politica, per rafforzare le istituzioni, per renderle o conservarle forti, inclusive ed efficienti. Spetta a te decidere, in modo informato e consapevole, se questo possa avvenire riducendo il numero dei rappresentanti o meno.

La video – guida rapida con le ragioni del Sì e le ragioni del No

Se hai bisogno di un rapido ripasso delle misure principali e dei cambiamenti che si determineranno con la riforma costituzionale, poi, puoi sempre guardare questo breve video:

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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