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Opinioni

Covid-19 e Dpcm, le vere ragioni dietro le decisioni del Governo sulle zone arancioni e rosse

Proviamo a capire come e perché il Governo ha deciso di smentire se stesso in tempi record e cambiare la classificazione di rischio delle Regioni italiane. Tra indicatori in crescita, un contesto preoccupante e un Rt drammaticamente stabile, emerge una delicata partita a scacchi, tra dati ballerini e interessi politici.
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Perdonerete la premessa, ma credo sia necessario rendersi conto della realtà dei fatti, prima di esprimere qualunque giudizio in merito alle decisioni prese dal Governo negli ultimi giorni. Recentemente, l'ISS ha rilasciato i dati del monitoraggio settimanale, con delle raccomandazioni specifiche: in generale è "necessaria una drastica riduzione delle interazioni fisiche tra le persone in modo da alleggerire la pressione sui servizi sanitari"; per le aree gialle (che hanno una “probabilità elevata di progredire a rischio alto nel prossimo mese”) si chiede invece di "considerare di anticipare rapidamente le misure previste per il livello di rischio alto ed il corrispondente scenario". Tradotto: nessun passo indietro per le aree rosse e aumento delle aree arancioni, in modo da mitigare gli effetti della seconda ondata.

E, in effetti, il report completo esplicita i motivi per cui è davvero giusto preoccuparsi per lo stato delle cose. L’epidemia in Italia è in rapido peggioramento, la situazione è complessivamente e diffusamente molto grave sull’intero territorio con criticità evidenti in numerose Regioni, determinate in particolare dal raggiungimento delle soglie critiche di occupazione di terapie intensive e posti letto nonché dall’incapacità dei sistemi sanitari di testare, rintracciare e isolare i contagiati e i contatti stretti. Più nel dettaglio, i dati dell’ultimo monitoraggio dell’ISS mostrano come la maggior parte del territorio italiano sia compatibile con uno scenario di tipo 3 (qui per sapere di cosa stiamo parlando), ma anche l’aumento del numero di Regioni già in scenario 4. L’Rt su base nazionale si attesta a 1.72, peraltro in un contesto in cui ISS rileva una “criticità nel mantenere elevata la qualità dei dati riportati al sistema di sorveglianza integrato sia per tempestività sia per completezza”. Per capirci, i dati su cui stiamo ragionando in queste ore (e su cui soprattutto hanno ragionato CTS e Governo) sono relativi alla settimana dal 26 ottobre al 1 novembre e risultano poco accurati “per difetto”: stiamo cioè guardando una fotografia sfocata della situazione del nostro Paese che risale a oltre due settimane fa, consapevoli che il quadro reale e attuale potrebbe essere ben peggiore.

Nella conferenza stampa successiva, per la verità, sia Brusaferro (ISS) che Locatelli (CSS) hanno in qualche modo provato a rassicurare, sottolineando la decelerazione dell’Rt (che resta comunque ben oltre la soglia di sicurezza) e i possibili effetti positivi delle misure di contenimento prese nelle ultime settimane. I due accademici hanno comunque insistito sulla necessità di “modellare la curva”, ribadendo l’importanza dei comportamenti individuali (“la triade distanziamento-mascherina-igiene delle mani”) e della salvaguardia della tenuta dei sistemi sanitari, la cui resilienza sembra venir meno in alcune Regioni.

Perché le nuove zone arancioni

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, rispondendo a una nostra domanda, ha chiarito come l'applicazione delle misure restrittive sia automatica, non negoziata con le Regioni ma determinata esclusivamente dai risultati del monitoraggio. Una linea piuttosto problematica, soprattutto per la scarsa qualità dei dati che giungono dai servizi regionali e per l'assenza di trasparenza su punti chiave. Dopo aver faticosamente ottenuto la pubblicazione integrale dei dati del monitoraggio, da settimane analisti indipendenti chiedono che sia reso chiaro il funzionamento complessivo dell'algoritmo (ISS si limita a mostrare delle flow chart sui singoli indicatori ma non spiega quale peso abbiano, come vengano mixati e se esista un univoco risultato finale), oltre ad alcune specifiche su indicatori chiave, come quello delle terapie intensive e degli ingressi in ospedale. Anche perché ai dati sono legate restrizioni e misure di contenimento che interessano milioni di persone.

C'è stato un momento in cui abbiamo avuto la possibilità di scegliere quali misure adottare, ora siamo di fronte a uno scenario diverso in cui si è praticamente spalle al muro e alcune decisioni sono obbligate. Leggere i dati specifici sulla tenuta dei sistemi sanitari territoriali aiuta a comprendere il perché delle scelte del governo. In particolare dovremmo considerare 7 indicatori specifici di risultato e 2 di processo fra i 21 che contribuiscono a determinare il colore di una Regione: quelli relativi a stabilità di trasmissione e alla tenuta dei servizi sanitari, oltre che alla stabilizzazione dei trend di crescita per un intervallo ampio (ultime tre settimane). A quanto apprende Fanpage.it sono questi nove indicatori ad aver spinto il governo a procedere in modo spedito con le nuove classificazioni del rischio, senza neanche attendere l’esito del monitoraggio periodico previsto dal Dpcm del 3 novembre. Nel dettaglio, dunque, particolare centralità rispetto alla valutazione finale acquistano i seguenti elementi:

  • 3.1 Numero di casi riportati al Ministero della Salute negli ultimi 14 giorni;
  • 3.2 Rt calcolato sulla base della sorveglianza integrata ISS;
  • 3.4 Numero di casi per data diagnosi e per data inizio sintomi;
  • 3.5 Numero di nuovi focolai di trasmissione;
  • 3.6 Numero di nuovi casi di infezione confermata da SARS-CoV-2 per Regione non associati a catene di trasmissione note;
  • 3.8 Tasso di occupazione dei posti letto totali di Terapia Intensiva;
  • 3.9 Tasso di occupazione dei posti letto totali di Area Medica;
  • 2.1 Percentuale di tamponi positivi escludendo per quanto possibile tutte le attività di screening e il re-testing degli stessi soggetti;
  • 2.2 Tempo tra data inizio sintomi e data di diagnosi.

Vi abbiamo spiegato il perché la Lombardia, il Piemonte e la Calabria fossero zone rosse (assieme alla Valle d'Aosta che paga anche l'incapacità nel fornire dati tempestivi), una condizione che non sembra destinata a mutare nelle prossime settimane, almeno a considerare gli Rt (rispettivamente 1.99, 1.76, 1.41), i tassi di occupazione di TI e area medica (oltre la soglia del 30% in Lombardia e Piemonte) e le molteplici allerte relative alla resilienza dei servizi sanitari e assistenziali. Capire come si sia giunti all'individuazione delle aree arancioni o ai cambiamenti di status appare parimenti interessante.

Consideriamo per esempio il caso della Puglia, Regione già indicata come “arancione”, ovvero caratterizzata da uno scenario di elevata gravità e da un livello di rischio alto. Oltre ad avere un Rt 1,56, la Puglia ha più del 50% della probabilità di raggiungere la soglia critica dei posti di terapia intensiva e di area medica in meno di 30 giorni; ha inoltre una percentuale altissima di tamponi positivi su casi testati, in crescita del 5% in 7 giorni, segno evidente delle difficoltà del sistema sanitario nel fare tutti i test necessari. Dati che non sono suscettibili di miglioramenti senza ulteriori misure restrittive.

Una Regione passata dal giallo all'arancione è la Liguria, guardando i dati non si fa fatica a capire il perché. Pur avendo un Rt al di sotto della media nazionale, la Regione amministrata da Giovanni Toti ha superato di gran lunga soglia critica dei posti in area medica e raggiungerà a breve quella delle terapie intensive; sono poi segnalati “sovraccarichi in aree mediche ed evidenza di nuovi focolai in RSA/case di riposo/ospedali” e da tre settimane la classificazione del rischio è di livello alta, ovvero con “trasmissione non gestibile in modo efficace con misure locali”.

Ora passiamo all'Emilia Romagna, che rischia di cambiare di status (e in tal senso premono alcuni ambienti di Chigi, su suggerimento dell'ISS). Qui abbiamo visto crescere di 4 punti percentuali i tamponi positivi rispetto ai casi testati (dal 14.6% al 18.7%), c’è già un’allerta segnalata per quanto concerne la resilienza dei presidi ospedalieri, ma soprattutto abbiamo valori vicini a quelli della Lombardia per quanto concerne il numero di casi per 100mila abitanti su base settimanale e giornaliera. Infine, l’indice di occupazione delle terapie intensive è al 20%, con una probabilità di più del 50% di escalation a rischio alto nei prossimi 30 giorni sia per le TI che per i posti letto di area medica. In queste condizioni, i tecnici dell’ISS hanno spiegato al Governo come le restrizioni da zona gialla non possano ritenersi sufficienti, soprattutto considerando che si tratta di dati consolidati al primo novembre, che non possono che essere peggiorati negli ultimi dieci giorni con Rt 1,57.

Il caso Campania

La Campania merita un ragionamento a parte e da giorni (qui, qui e qui qualche spunto) vi raccontiamo cosa sta succedendo fra Palazzo Chigi e Palazzo Santa Lucia a Napoli. Partiamo dagli indicatori di cui parlavamo sopra: l’Rt è a 1.64 (con intervallo di confidenza tra 1.57 e 1.72), i focolai attivi sono 498, il tasso di occupazione delle terapie intensive è del 23%, quello dei posti letto in area medica del 31, la probabilità di un’escalation a rischio alto nei prossimi 30 giorni è più del 50%, il tasso di positività è del 18.1% (ma settimana precedente del 10%), l’incidenza degli ultimi 7 giorni per 100mila abitanti è di 370.45 su media nazionale a 304.16, ma è segnalata una sola allerta e non ci sono segnali dichiarati di imminente collasso dei sistemi di tracciamento e isolamento.

I dati dell'ultimo monitoraggio sembrerebbero dunque indicare una situazione problematica ma non critica: se ci soffermassimo solo all'ultima settimana, spiegano a Fanpage.it fonti del ministero della Salute, la Campania dovrebbe essere zona arancione, ma come detto, il decreto prevede che per un passaggio di fase la classificazione sia alta o equiparata ad alta per un intervallo di tempo più ampio. Ciò, stando al monitoraggio dell'ISS non è ancora avvenuto, dunque Campania dovrebbe continuare a essere zona gialla.

C'è un enorme "però" dietro queste considerazioni ed è quello relativo all'attendibilità dei dati arrivati al ministero. Come vi stiamo raccontando, gli ispettori di Speranza hanno provando a ottenere maggiori dettagli sull'intera catena che parte dalla raccolta dei dati fino alla loro comunicazione alla centrale di monitoraggio, anche alla luce di diverse segnalazioni giornalistiche che fotografano una situazione diversa da quella raccontata dal governatore Vincenzo De Luca. Il grosso problema dei dati della Campania, confermano fonti del ministero a Fanpage.it, non risiede tanto nel numeratore, quanto nel denominatore. Che significa? Prendiamo come esempio il caso dei posti letto e delle terapie intensive. Dopo aver giocato per settimane sull'equivoco fra posti disponibili e posti attivabili, in Campania tra il 5 e il 6 novembre accade questo:

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Possibile che in 24 ore si sia passati da 243 posti attivabili (dunque neanche pronti) a ben 590 già disponibili? Ovviamente no, come spiega la stessa Regione Campania: "Il dato odierno di 590 posti letto di terapia intensiva si riferisce all’intera dotazione di posti letto, pubblico e privato accreditato, realizzati e funzionanti che attualmente sono presenti in Regione Campania per far fronte all’intera richiesta di assistenza ospedaliera (Covid e non Covid). Si tratta della stessa dotazione di posti letto rilevabile nel flusso delle piattaforme ministeriali. Si precisa che a febbraio i posti letto di terapia intensiva attivi in Regione Campania erano 335 e che in questi mesi ne sono stati realizzati e attivati altri 255". Che cosa è successo in questi mesi, dunque? Perché la Campania ha sempre ragionato sulla cifra di 243 posti in terapia intensiva (manco 335 che doveva essere il numero minimo di partenza), dunque? Perché Boccia ha sempre spiegato come la Campania avesse 433 posti in terapia intensiva e dovesse provvedere ad attivarne altri in tempi rapidi, visto che aveva già ricevuto il corrispondente numero di ventilatori ? E perché Arcuri in conferenza stampa parla di 505 posti TI per la Campania, diverso da quello che usa AGENAS (l'Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali che monitora l'andamento delle TI)?

A quanto siamo riusciti a ricostruire, 590 dovrebbe essere il numero su cui è tarata ogni statistica della cabina di monitoraggio del ministero, ed è il denominatore che produce appunto le percentuali "sotto soglia" che hanno contribuito a determinare la scelta di lasciare la Campania in zona gialla (idem per i posti letto in area medica, passati da 1940 a 3160). La Regione ha cominciato a utilizzare 590 proprio nel timore che la comunicazione del bollettino quotidiano lasciasse intravedere ai cittadini una situazione molto più critica di quella comunicata alla cabina di monitoraggio. Con questi dati, anche nella settimana fra il 2 e l'8 novembre, dunque, l'occupazione delle TI resterebbe sotto soglia, come è possibile visionare anche qui.

Questa enorme confusione ha generato equivoci e problemi, emersi chiaramente nel corso dei confronti fra Roma e Napoli. Ma soprattutto ha per settimane impedito che si dirimesse l'unica vera domanda che i tecnici del ministero si fanno: questi 590 posti di terapia intensiva e 3160 in area medica sono davvero operativi? Perché se così non fosse (qui e qui vi mostriamo quanto siano concreti questi dubbi), l'intera impalcatura di dati crollerebbe e la valutazione sulla Campania cambierebbe radicalmente.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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