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Opinioni

In Italia le quote rosa non bastano (e la colpa è della politica)

Fu Mario Monti ad approvare le quote rosa nel 2012, eppure i dati sul lavoro parlano di una situazione drammatica per le donne nel nostro paese. Ma di questo non si parla più.
A cura di Michele Azzu
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Che fine hanno fatto le rivendicazioni delle donne? Che ne è stato della parità di genere e di stipendio, dell’eguaglianza nel trattamente sul lavoro, che fine hanno fatto le quote rosa? L’8 marzo, festa internazionale della donna, è un buon momento per chiederselo. Soprattutto in Italia: sono passati 4 anni dal 13 febbraio 2011, in cui un milione di persone scesero in piazza in 100 città italiane – e persino all’estero – sotto lo slogan di “Se non ora quando”. Un movimento che, alla luce degli scandali sessuali che coinvolgevano l’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi, chiedeva pari diritti e dignità per le donne.

Sono passati quattro anni: che ne è stato di quella grande spinta di piazza che aveva unito il paese e gli schieramenti politici? A guardare bene sembra proprio che non se ne sia fatto nulla. Certo, fu Mario Monti ad approvare nel 2012 la legge 120, che introdusse le quote rosa nei consigli d’amministrazione delle società quotate in borsa, portando così la presenza femminile dal 6% del 2010 al 22% attuale. Un balzo non da poco, che però non dice nulla della reale situazione lavorativa femminile nel nostro paese.

È tutto qui? Bastavano le quote rosa per le quotate in borsa a fare felice quel milione di persone scese in piazza quattro anni fa? O è il dibattito ad essere antico, oggi che la disoccupazione colpisce tutti e i più giovani? In realtà il dibattito internazionale è vivo e vegeto, e l’azione dell’Onu è ora più intensa che mai: “Una ragazza che nasce oggi avrà 81 anni prima di avere le stesse opportunità di diventare amministratore di un’azienda”, ha affermato Phumzile Mlambo-Ngcuka, direttore della sezione donne delle Nazioni Unite. “Quella ragazza dovrà attendere 50 anni prima di avere la stessa possibilità di essere alla guida di un paese”.

Di donne si è discusso anche al meeting di Davos, ed è nata la campagna “He for She” delle Nazioni Unite per promuovere la parità di genere. Sono tante le donne in posizioni di rilievo che di recente si sono spese per la battaglia, come l’attrice inglese Emma Watson, come l’ex first lady americana Hillary Clinton, o come l’attrice Patricia Arquette, che ha ricevuto il premio oscar come attrice femminile per la sua performance nel film di Richard Linklater “Boyhood”. Ecco cosa ha affermato alla cerimonia degli Oscar: “È arrivato il momento di avere parità di stipendio una volta per tutte e pari diritti per le donne”.

Sul fronte legislativo, inoltre, la Germania ha appena approvato le quote rosa del 30% nei consigli di sorveglianza delle grandi imprese. Eppure proprio questo paese vanta una percentuale femminile di quasi il 20% dei dirigenti delle cento più grandi aziende tedesche. Un dato ben sopra tanti altri paesi, ma che sembra ancora insufficiente per i tedeschi. Forse perché, oltre ad essere una battaglia giusta, da tempo numerose ricerche spiegano come la varietà di genere nei consigli d’amministrazione migliori la performance delle stesse, e quindi i risultati economici.

E in Italia? Da noi il dibattito sulle donne sembra essere scomparso del tutto. Come è potuto accadere? Si diceva, le quote rosa sono state introdotte nel 2012, anche se limitatamente ai cda delle società quotate in borsa. Inoltre, per tornare alla divario nello stipendio fra uomo e donna – anche se è vero che questo era del 4.9% nel 2008 ed è cresciuto fino al 7.3% nel 2014 – questo dato rimane al di sotto della media europea del 16.4%.

Allora è questo il motivo per cui di parità dei diritti sul lavoro non si parla più, si tratta di un problema risolto? Le cose non stanno proprio così. I dati del rapporto Istat sull’occupazione, pubblicato a marzo 2015, presentano una situazione sul lavoro preoccupante. Il tasso di occupazione delle donne è al 46.8%, e al sud questo numero precipita al 30%. Se prendiamo in esame i giovani fino ai 24 anni, inoltre, il tasso di occupazione scende in maniera inesorabile: al 12.8%, e solo l’8% al sud. Meno di una donna su dieci.

Poi ci sono i numeri sull’inattività, ovvero tutte quelle donne che un lavoro neanche lo cercano. I motivi? Perché ritengono di non riuscire a trovarlo, perché preferiscono studiare nell’incertezza e nell’attesa, oppure per motivi familiari. È noto, infatti, che il peso della famiglia ricade spesso sulle donne. Il tasso di inattività generale fra le donne è del 45.6%, e sale al 60.4% al sud. Per le donne fino ai 24 anni il dato è decisamente drammatico: 76.9% quello generale, 80.7% al sud.

Per le madri la situazione è perfino peggiore. In Italia lavora solo il 54% delle donne con figli, al sud la percentuale scende al 37.4%. Le donne madri che lavorano in proprio praticamente non esistono: sono solo il 15.7% secondo Confesercenti. E pensare che in Danimarca lavora il 77% delle madri, merito di un sistema di welfare che permette loro di riuscirci.

Altro che quote rosa o differenze di stipendio con gli uomini: In Italia le donne affrontano una vita lavorativa estremamente difficile. Ma allora, se la situazione è così drammatica, perché di diritti delle donne sul lavoro non si parla più? Eppure un anno fa il nuovo governo Renzi sembrava essersi fatto portatore di una ventata di rinnovamento, con metà dei ministri di sesso femminile.

In realtà, ministri a parte, i dati sugli incarichi politici in Italia dicono che solo il 21% è ricoperto da donne, e solo il 10% delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni ha un presidente donna. È passato un anno esatto, inoltre, dalla bocciatura degli emendamenti per la parità di genere dell’Italicum, la riforma delle nuova legge elettorale. Insomma, anche in politica le donne non ci sono.

Quindi il problema non esiste, non si legifera in merito, in un circolo vizioso che difficilmente potrà interrompersi, e di cui non si intravede più neanche l’ombra di un dibattito. Forse è in politica che servono le quote rosa. Quel che è certo, è che quanto fatto fino ad ora non è abbastanza.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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