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Facchini, fattorini, call center: il caporalato digitale è la nuova emergenza del lavoro

Tanti settori vivono il precariato più selvaggio. Ma senza politica e sindacati la situazione non migliora. E spesso, sono i settori della fiorente economia digitale.
A cura di Michele Azzu
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Licenziati per avere partecipato ad assemblee sindacali, stipendi part-time decurtati, cottimo mascherato. Sono le condizioni di lavoro di tante persone in Italia che cercano di arrivare alla fine del mese. Quelle dei facchini che consegnano i pacchi della economia digitale di Amazon e Ebay, quelle dei fattorini che in bici consegnano i pasti scelti sulle app del cellulare, quelle dei call centeristi che chiamano tutti i giorni al telefono di casa e a cui spesso rispondiamo in malo modo.

Certo, non si può parlare di vere assemblee sindacali, perché spesso alle riunioni informali in cui queste persone cercano di organizzarsi il sindacato neanche c’è. E non si può parlare di licenziamenti, perché la maggior parte lavora a partita Iva, o coi co.co.co e i voucher. Non si può parlare neanche di stipendi, perché si tratta nel caso migliore di paghe part-time, se non di somme “accessorie” che dovrebbero rifarsi a un secondo lavoro.

All'estero il simbolo di questi lavori precarissimi e senza tutele dell'economia digitale, sono spesso rappresentati dagli autisti dell'app Uber – servizio che negli USA ha ormai sostituito i taxi – che lavorano da autonomi senza essere assunti dalla società (che anche grazie a questo si è arricchita). E proprio il caso di Uber dice che per questi lavoratori presto qualcosa potrebbe cambiare. Nel Regno Unito, pochi giorni fa, una sentenza storica ha stabilito che gli autisti Uber dovranno essere assunti dall'azienda come dipendenti, con ferie, malattie e benefit. Si parla di 40mila autisti solo in Gran Bretagna.

Questa sentenza potrebbe essere un precedente decisivo nel diritto del lavoro odierno. Ma mentre nel resto del mondo già si discute sui rischi dell’intelligenza artificiale, e di come si potranno impiegare le persone che perderanno il lavoro a causa dei robot, in Italia siamo ancora fermi nella palude del precariato più selvaggio. E si è già spenta la corsa alle assunzioni stabili (i contratti indeterminati) registrata nel 2015 grazie agli incentivi creati dal governo: sono calati del 32.9% mentre i voucher, i buoni con cui tante aziende oggi pagano il lavoro precario, crescono del 35.9%.

Turismo, consegne, startup digitali, facchini, call center. In questi settori il Jobs Act, la cancellazione dei contratti a progetto (co.co.pro) e l’allungamento dei contratti a tempo a 3 anni – e cioè i provvedimenti del governo Renzi sul lavoro – non sono serviti a migliorare le condizioni di lavoro. Ma non è facile, fra questi settori così lontani fra loro, spesso senza la presenza di sindacati (ma nei call center i sindacati sono entrati) e senza alcun interesse della politica, individuare i punti comuni. Quelle caratteristiche che danno il disegno più ampio di un precariato sistemico. Vediamo allora nel dettaglio cosa è successo di recente fra i lavoratori di alcune aziende i cui lavoratori si sono impegnati in azioni di protesta.

I fattorini di Foodora, un’app tedesca di consegna pasti a domicilio, hanno protestato per chiedere paghe migliori e la fine del cottimo. Di recente, infatti, l’azienda aveva portato le paghe a una cifra pari a 2.70 euro la consegna (dai precedenti 5 euro l’ora). Dunque il cottimo, o meglio, la miseria di guadagnare ancora meno di una cifra già bassissima. Senza neanche un fisso. I lavoratori, inoltre, chiedono che sia l’azienda a pagare le bici (o almeno la manutenzione), e le spese del cellulare.

A seguito delle proteste, l’azienda ha proposto di aumentare i 2.70 euro a consegna a 3.70, ma la questione vera è un’altra: i fattorini di Foodora sono dipendenti o no? È difficile, anche, pensare che un’azienda che ha le consegne come modello di business si affidi a fattorini che cercano unicamente un secondo lavoro, o a studenti, come afferma l’azienda: "È un'occupazione per chi vuole guadagnare un piccolo stipendio e ha la passione per andare in bicicletta. Non un lavoro per sbarcare il lunario”.

Ma se chi in bici consegna i pasti se la passa male, anche chi porta i pacchi in furgone non sta benissimo. Sono durissime le condizioni di lavoro del settore logistica, e in particolare in quelle dei facchini della GLS. Lavoratori per lo più stranieri che lamentano buste paga irregolari, carichi di lavoro lunghissimi (di 12 ore), stipendi non pagati. La vicenda riguarderebbe più la Seam, la società che gestisce gli operai all’interno della GLS di Montale (Piacenza).

Lo scorso settembre un facchino, Abd El Salam, è morto schiacciato da un tir mentre protestava. Il tragico evento ha portato un po’ più di attenzione alla difficile situazione del lavoro di questi operai. È grazie a queste persone che i colossi del commercio digitale, come Amazon ed Ebay, possono funzionare. Sono loro, infatti, a consegnare i pacchi dell’e-commerce. Ma anche qui i sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil) non ci sono, e i sindacati di base fanno quello che possono nel labirinto di appalti e subappalti.

Le condizioni di lavoro pessime e la grande presenza di lavoratori stranieri, principalmente africani, ha portato in questo caso a parlare di “caporalato digitale”. Una sigla che potrebbe idealmente includere tanti altri ingranaggi deboli delle economie di internet. Certo, il caporalato vero è un problema serio. Ma se le condizioni sono chiaramente diverse, salta all’occhio una cosa comune: le cifre di chi lavora nei campi e chi lavora per l’economia digitale sono le stesse (25-30 euro al giorno).

I call centeristi di Almaviva, ad esempio, anche loro occupati in questi giorni a scongiurare i licenziamenti, nel 2013 avevano dovuto rinunciare a 50 euro in busta paga, sui circa 650 euro al mese di paga part-time. In quel modo si erano riusciti a scongiurare 2.000 licenziamenti. Ma, come spiegava allora il sindacato Cisal: “Decurtare 50 euro da una busta paga così misera significa non poter sfamare i propri figli”. L’accordo del 2013, inoltre, introdusse anche la “smonetizzazione della domenica”, e cioè faceva pagare il giorno di festa come un normale giorno feriale.

Anche queste condizioni durissime, ottenute dopo mesi di trattative e proteste, non sono bastate: ora Almaviva ha annunciato la chiusura delle sedi di Roma e Napoli e quindi 2.511 esuberi. C’entra la delocalizzazione, certo, c’entra il dumping salariale della concorrenza coi lavoratori dell’est europa. Ma anche gli operatori dei call center sono un ingranaggio fondamentale dell’economia digitale, sono loro a rispondere alle offerte commerciali di quei servizi.

In questi anni poco e nulla è stato fatto per queste categorie. Anzi, le situazioni peggiorano anno dopo anno. La cosa interessante è che queste storie sono comuni in tutto il mondo. I fattorini in bici, ad esempio, protestano ovunque, e così i facchini. E non si tratta di guerre perse. In realtà proprio perché così centrali nelle nostre economie, questi settori sarebbero facilmente riformabili dai sindacati, dai governi e dalla politica se solo si prestasse un po’ di attenzione a queste proteste.

In Nuova Zelanda, ad esempio, lo scorso marzo sono stati aboliti i “contratti a zero ore”, simili ai nostri contratti a chiamata e presenti in tutta Europa. C’è voluto l’impegno di un sindacato nuovo, “Unite”, che ha messo assieme i lavoratori di settori dimenticati dai sindacati tradizionali, come quelli delle catene di fast-food, e degli hotel. Un sindacato piccolissimo, che per organizzare scioperi e picchetti è ricorso spesso agli studenti per fare numero.

E anche nel Regno Unito i fattorini in bici stanno protestando, e sono ricorsi a cause legali contro tante aziende di consegne – anche qui per il cottimo e per la questione del lavoro dipendente o autonomo – grazie al sindacato indipendente IWGB. Se questi fattorini vinceranno le cause, nel giro di pochi mesi nel paese la categoria potrà avere un minimo salariale, malattia, ferie e assemblee sindacali.

Perché non è normale che interi settori del nostro paese siano terra di conquista per chi introduce le condizioni peggiori di contratti, paghe, orari e ti devi pagare perfino la benzina o la bicicletta (e al primo accenno di protesta vieni messo alla porta). Soprattutto, per quelle aziende che operano nel fiorente mercato delle economie digitali. Dove i profitti possono essere stellari, ma dove troppo spesso, ora, sembra di vivere una forma solo più subdola di caporalato.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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