È passata ormai una settimana dalla pronuncia con cui il Tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento di richiedenti protezione tunisini, e la giudice Apostolico, che ha deciso i casi in questione, continua a subire attacchi da parte dei membri della destra al governo. Eppure quella del tribunale siciliano non è l’unica pronuncia a evidenziare i profili di illegittimità della strategia governativa contro i richiedenti asilo. Anzi, non è nemmeno la prima. Ci sono almeno altri due provvedimenti, precedenti a quello del tribunale di Catania e sulla stessa linea: il decreto del Tribunale di Firenze del 20 settembre e quello del Tribunale di Bologna del 18 settembre.
I fatti e le norme alla base delle decisioni
Sia nel caso di Bologna sia in quello di Firenze, la decisione riguarda la sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento di diniego della protezione. In entrambi i casi, questo diniego arriva all’esito di una procedura accelerata, che si applica ai richiedenti protezione che provengono da Stati che sono stati inseriti nella lista dei cosiddetti "paesi sicuri". L’adozione di questa procedura comporta una seria riduzione delle tutele procedurali e sostanziali per il richiedente: la commissione che decide la domanda può essere meno rigorosa nella motivazione (di fatto l’onere di provare il pericolo di persecuzione grava sul richiedente), i termini per il ricorso sono dimezzati e il diniego è immediatamente esecutivo, cioè il richiedente protezione può essere rimpatriato o, più spesso, finire nell’invisibilità di chi resta sul territorio italiano senza un titolo di soggiorno.
Proprio contro questo rischio si pone la pronuncia del tribunale di Bologna, che riguarda un ragazzo del 2001 che, nel periodo intercorso tra la domanda di protezione, il tentativo di trattenimento e il diniego della richiesta, si era integrato, imparando la lingua italiana, trovando lavoro, partecipando attivamente alle attività sportive di una realtà amatoriale.
Il tribunale di Firenze si sofferma invece sulla presunzione che la Tunisia, luogo d’origine del ricorrente, sia un paese sicuro. Ma, prima di porre in dubbio la legittimità dell’inserimento del regime di Saied nella lista dei paesi sicuri, i giudici toscani si chiedono se possano e debbano valutare un requisito simile.
La gerarchia delle fonti e il ruolo della magistratura
Il ragionamento del tribunale di Firenze, che si ritrova tra le righe anche nelle pronunce di Bologna e di Catania, richiama norme internazionali, sovranazionali e costituzionali. Non entriamo qui nel dettaglio, tanto più che il provvedimento è pubblico e ciascuno può leggere e approfondire. È però il caso di sottolineare questo richiamo, perché dimostra che i giudici che scrivono un provvedimento sono di solito ben consapevoli della necessità di argomentare le proprie posizioni giuridiche. Anche per questo, oltre che intimidatorio, l’impegno di Salvini per screditare la giudice Apostolico pubblicando le sue immagini al presidio per lo sbarco della Diciotti o trovando un like a un post social del marito è fuori fuoco: il valore di un atto giudiziario sta nelle parole con cui si spiega il ragionamento che ha condotto alla decisione, non nel passato o nelle idee politiche di chi l’ha stilato.
E, nel decidere un caso, la magistratura non può dimenticare i fondamenti dell’ordinamento, i valori costituzionali di base che guidano (o dovrebbero guidare) l’attività normativa e di amministrazione. La gerarchia delle fonti pone diversi principi e diverse leggi come norme superiori rispetto alle direttive del governo (di qualunque governo, non solo dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni).
A questo si aggiunge la funzione del giudice come interprete delle norme, con il dovere di applicarle alla luce dei princìpi della Costituzione. Tra i princìpi vanno compresi anche quelli dell’Unione europea, come confermato anche dalla Corte costituzionale, in più occasioni: l’atto che viola il diritto dell’Unione europea va automaticamente disapplicato dal giudice.
La bufala del “ce lo chiede l’Europa”
Tanto la decisione della giudice di Catania, quanto le pronunce di Bologna e Firenze ribadiscono la gerarchia delle fonti, disapplicando atti amministrativi che derivano da scelte del governo che non sono in linea con i princìpi di base del diritto.
Sul tema della garanzia finanziaria imposta ai richiedenti asilo, la giustificazione addotta da membri del governo o da esponenti della maggioranza dipinge la misura come richiesta dall’Unione europea. Non è così. La direttiva pone la garanzia finanziaria come una delle possibili opzioni per evitare il trattenimento del richiedente asilo, non certo come l’unica possibilità per evitare la detenzione, come invece previsto dal decreto Cutro e dal successivo decreto interministeriale. La previsione di più opzioni permette infatti di scegliere la misura più idonea nel caso concreto: la richiesta di garanzia finanziaria nella direttiva rappresenta un’ipotesi limite, non la norma.
Sul punto, la giudice Apostolico cita quasi testualmente quanto deciso, il 14 maggio 2020, dalla Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha specificato come la richiesta di una garanzia finanziaria non può tradursi nel trattenimento del richiedente asilo per la sola impossibilità di provvedere ai propri bisogni, e che il trattenimento deve conseguire a una decisione motivata, che valuti la necessità e la proporzionalità della misura in questione.
Trattati internazionali, princìpi europei e Costituzione italiana sono infatti chiarissimi sull’affermazione del diritto alla libertà personale e da questo deriva che la sua limitazione deve essere l’eccezione, non la regola, specie in assenza di comportamenti colpevoli. Anche la tutela di chi chieda protezione risponde a princìpi e valori ormai consolidati, e anche questi risultano violati dalla riduzione delle tutele nei confronti di richiedenti asilo che provengano dai cosiddetti paesi sicuri.
Ogni domanda di protezione è un caso a sé
Tra questi princìpi, c’è la necessità di valutare ogni richiesta di asilo caso per caso, tenendo conto non solo della situazione generale del paese d’origine, ma anche delle condizioni personali di chi richieda tutela. Un paese può infatti essere in pace, ma violare i diritti umani di determinate persone: l’uomo taglieggiato da organizzazioni criminali, la donna che non intende mettere il velo, l’omosessuale perseguitato dai suoi familiari, il dissidente preso di mira dal governo possono anche provenire da un "paese sicuro", ma è la sicurezza individuale della persona che deve essere valutata dalla commissione che decide sulle domande di protezione.
Sul punto, il tribunale di Firenze, nel suo decreto su un richiedente asilo tunisino, nota con un certo acume come lo Stato possa sì prevedere una procedura accelerata per chi provenga da determinati paesi, ma questa procedura riguarda la commissione che deve concedere o respingere la domanda di protezione, non anche il giudice che debba decidere sul ricorso. In altre parole: il controllo dell’amministrazione può essere sommario, ma quello della magistratura deve restare rigoroso.
La Tunisia non è Paese sicuro, ed è lo stesso governo a dirlo (a sua insaputa)
La procedura accelerata prevista per i richiedenti asilo protagonisti delle pronunce di Bologna, Firenze e Catania si basa sulla presunzione che la Tunisia sia un paese sicuro. Il collegio giudicante fiorentino si interroga in maniera approfondita e argomentata sull’effettività di questa definizione, e conclude in maniera chiara: le evoluzioni del regime di Saied impediscono di considerare ancora valido il decreto ministeriale che inserisce la Tunisia nella lista dei paesi sicuri.
Per giungere a questa conclusione, il tribunale cita proprio le argomentazioni dell’amministrazione degli Esteri, che analizza la situazione tunisina aggiornata al 28 ottobre 2022, quando già la crisi politica stava emergendo. I documenti ministeriali citano alcune avvisaglie di autoritarismo, ma le valutano con approccio ottimistico: Saied ha destituito decine di giudici, ma l’indipendenza della magistratura è salva perché il tribunale amministrativo tunisino ha dichiarato illegittimo il provvedimento governativo; o ancora la democraticità delle elezioni del dicembre 2022 sarebbe stata garantita dal controllo da parte di un organismo indipendente.
Tuttavia, dopo l’ultimo aggiornamento della scheda ministeriale sulla Tunisia, quegli stessi caratteri che deponevano a favore della presunzione di democraticità del paese sono stati smentiti: se è vero che la destituzione dei giudici è stata dichiarata illegittima, è anche vero che la sentenza amministrativa non è stata attuata, nessuno di loro è stato reintegrato (e alcuni anzi sono stati arrestati); così come il controllo sulla correttezza delle procedure elettorali è stato infine affidato a gruppi vicini a Saied, circostanza che ha probabilmente contribuito a ridurre l'affluenza al 9%.
Un paese sicuro, inoltre, deve garantire le tutele per il diritto di asilo, almeno quelle previste dalla Convenzione di Ginevra, tutele che la Tunisia però non prevede. E sulla non sicurezza del paese depongono anche le preoccupazioni manifestate ufficialmente dall'UNHCR, dalla Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa e dal mediatore europeo relativamente al rispetto dei diritti umani di migranti e richiedenti asilo in Tunisia.
I tribunali non fanno opposizione: correggono gli errori del governo
Di fronte a queste pronunce argomentate, che è possibile contestare giuridicamente nelle sedi competenti, gli esponenti della destra al governo stanno spostando la questione sul piano politico, lamentandosi dei giudici che starebbero facendo opposizione e minacciando destituzioni e riforme della giustizia.
Ma non è il primo caso in cui questo esecutivo, che predilige anche più dei suoi predecessori la decretazione d'urgenza, vede smontati in giudizio i propri atti: oltre alla lista dei paesi sicuri, posta in dubbio dal tribunale di Firenze, e alla disapplicazione dell'obbligo di cauzione da parte del tribunale di Catania, già il decreto Piantedosi sullo sbarco selettivo era stato dichiarato illegittimo e, su tutt'altro tema, il Tar del Lazio ha sospeso il decreto ministeriale che considerava i prodotti a base di CBD (la cosiddetta cannabis light) tra le sostanze stupefacenti. Ci sono poi le volte in cui il governo Meloni ha dovuto fare dietrofront: il decreto carburanti, come il decreto Superbonus, frettolosamente corretti dopo la loro emanazione. E ci sono i casi di dubbio, che potranno portare nei prossimi mesi a dichiarazioni di illegittimità costituzionale, soprattutto in materia penale: il delitto di raduni pericolosi, introdotto dal cosiddetto decreto anti-rave, resta sproporzionato, così come illogico risulta il reato di morte o lesioni in conseguenza di immigrazione introdotto dal decreto Cutro, così come la norma sull'ergastolo ostativo, che va in senso opposto rispetto a quanto richiesto dalla Consulta. Lo stesso Salvini, che continua a decantare i suoi decreti sicurezza, trascura la dichiarazione di illegittimità pronunciata dalla Corte costituzionale, che ha definito "irrazionale e irragionevole" la norma secondo la quale il permesso di soggiorno per richiesta d'asilo non permetteva l'iscrizione all'anagrafe.
Quel che emerge da questo sintetico elenco non è allora una fantomatica opposizione contro il governo da parte dei giudici, che si limitano a esercitare le proprie prerogative, applicando le leggi secondo l'interpretazione costituzionalmente orientata e argomentando le proprie decisioni. E l'elenco delle norme illegittime di questa destra, messe in fila, una dietro l'altra, non suggerisce soltanto una generale incompetenza nel trattare le questioni giuridiche. A preoccupare è piuttosto l'inquietante sprezzo dei valori di base dell'ordinamento, che si traduce nella distorsione del principio della divisione dei poteri, attraverso le intimidazioni a chi si permetta di infastidire il governo, e nel costante rischio di violazione dei diritti delle persone.