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Pino Daniele: l’ultimo cantore napoletano

Era cresciuto suonando il repertorio della canzone classica napoletana mischiato al blues degli americani della Nato. Padre del “sound napoletano”, aveva creato un linguaggio musicale moderno che non nascondeva le tradizioni coniugando, in un magma indistinto, musica colta e popolare quale felice rappresentazione di una Napoli città/mondo.
A cura di Marcello Ravveduto
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È morto il cantore della Napoli contemporanea. Cantore e non cantante perché Pino Daniele è stato la sintesi artistica di una triade che appartiene, come ha scritto Raffale La Capria, inestricabilmente all’anima e al carattere dei napoletani: «la tradizione europea della grande Napoli, la “napoletanità” e la “napoletaneria”… ogni napoletano rivela in maniera diversa queste tre componenti, passando dall’una all’altra, così come passa inavvertitamente dalla lingua al dialetto, dalla citazione colta alla colorita espressione in puro gergo partenopeo».

Daniele è stato un maestro, rendendo la lingua/dialetto una colta espressione musicale: il linguaggio universale di una Napoli che parla al mondo dal centro del mediterraneo, con i suoi ritmi, la sua marginalità, la sua rabbia, la sua cultura promiscua tra occidente ed oriente, tra popolo e borghesia.

Una caratteristica che deriva, con ogni probabilità, dalla sua nascita nel cuore del centro storico, vico Foglie a Santa Chiara, dove ancora è possibile trovare la millenaria mescolanza sociale su cui si è stratificato il melting pot metropolitano.

Primo di cinque fratelli, avrebbe compiuto a marzo sessant’anni. Ancora adolescente imbraccia la prima chitarra e comincia il suo viaggio tra i testi e le melodie di Bovio, Di Giacomo, Murolo, Costa, Viviani, tra i rumori del traffico e dei vicoli, tra i ritmi delle tammorre e il blues “niro niro” che suonano gli americani nei locali del Porto di Napoli. Pino si forma in quel movimento musicale napoletano che alla fine degli anni Sessanta è definito “Napule’s Power” (i negri del Vesuvio).

Le contaminazioni prendono corpo in una musica che fonde l’eleganza del ritmo e la poesia della melodia: un miracolo di “fusione” in quella commistione di generi che da secoli si accumula, si attorciglia, si amalgama nella metropoli mediterranea consentendogli di approdare al “rock-arabe” nel quale si è pienamente identificato e di cui è stato indiscusso “leader maximo”.

Il magma incandescente delle contaminazioni lo ha aiutato a vedere un’altra Napoli, «ritrovo di una cultura tribale e metropolitana, una via di mezzo tra Buenos Aires e New York, in cui le lingue si confondono e si uniscono, in cui le razze alla fine convivono in unico colore>>.

Napoli, per Daniele, rappresenta il Sud del mondo, il palcoscenico ideale da cui cantare, al pubblico dei “non allineati”, una denuncia sociale capace di esprimere il malessere di una generazione. Un altro modo di fare musica in cui l’identità locale non è più un limite intellettuale ma la metafora cosmopolita, non ancora globalizzata, di popoli marginali dalla cultura millenaria. Nasce così il “sound napoletano”.

Il long playing Terra mia ha aperto la strada ad un nuovo corso di idee, ad uno scrivere d’autore non banale, popolare sì, ma, proprio per questo, carico di significati, coerente con gli anni in corso, con la storia della gente, con l’insieme delle parole. ‘Na Tazzulella ‘e cafè o Ce sta chi ce pensa riflettono una vita effettiva, la ricerca di senso di una società alla deriva di idee e valori: «non è un caso che il caffè rappresenti proprio quel senso comune della città partenopea, finendo tutto in una realtà fatta d’incuria, di rapina di sentimenti, di gente che vive all’oscuro della propria vita. Non serve più la figura di un Pulcinella che tutto risolve perché ormai è la gente che si tira su le maniche per risolvere il proprio vissuto, lontano dalle istituzioni e dagli aiuti politici».

Se nel primo album (1977) il dialetto sembra un ostacolo, in un’opinione pubblica suggestionata dall’immagine del folklore partenopeo, nel secondo, del 1979, Pino Daniele viene apprezzato da un pubblico più ampio: è invitato da Renzo Arbore alla trasmissione radiofonica “Alto gradimento” e a quella televisiva “L’altra domenica”.

Con il brano Je so pazzo, partecipa al Festivalbar. Un vero e proprio canto metropolitano in cui si improvvisa novello Masaniello di fronte allo sfinimento del formalismo burocratico che attanaglia ogni aspetto della società. Una rabbia che va oltre ogni senso della misura: «Je so pazzo je so pazzo, e vogl’essere chi vogl’io, ascite fore d’a casa mia. Je so pazzo je so pazzo, c’ho il popolo che mi aspetta, e scusate vado di fretta, non mi date sempre ragione, io lo so che sono un errore, nella vita voglio vivere, almeno un giorno da leone, e lo Stato questa volta, non mi deve condannare, pecchè so’ pazzo, je so pazzo».

Si infrange il muro del qualunquismo e del perbenismo sino a dare libero sfogo alla “collera” della plebe. Una “sana” follia che la Legge dello Stato non può condannare. Il popolo si batte inutilmente contro regole incomprensibili e, allora, urlare e imprecare è l’unica soluzione per farsi ascoltare, spaventando l’impassibile ceto medio chiuso nel suo menefreghismo. Lontana dai miti dorati e nascosta al sole, questa città “altra” irrompe sulla scena per recitare un dramma antico e perenne con un idioma “tosto” che non è il dialetto italianizzato della piccola borghesia ma l’antica lingua dei lazzari di cui si è perso il ricordo.

Anche quando giunge al successo negli Stati Uniti, apprezzato come artista senza confini, rimane legato alla tradizione popolare partenopea. È il caso di Bella ‘mbriana. L’album viene inciso allo Streling Sound di New York, con la collaborazione di musicisti di fama internazionale.

«Chi non è napoletano si sarà chiesto, ogni volta che ne abbia sentito parlare, chi sia la ‘mbriana, o anche bella ‘mbriana. Vi ricordate del “munaciello”, che secondo i vecchi di Napoli è uno spirito leggero e dispettoso che si muove, e si nasconde nelle case? Anche la ‘mbriana è un’entità incorporea, uno spirito benigno che protegge le abitazioni, quelle dei ricchi, ai piani alti, e quelle dei poveri, nei bassi senza luce. Il “munaciello” è dispettoso, la bella ‘mbriana no, pensa solo ad aiutare chi crede in lei, è una fata, una dolce fata».

Una new wave in cui resta centrale il richiamo ancestrale della tammorra, risveglio di sogni e sentimenti sopiti. Il popolo napoletano, con Daniele, ri-conquista l’America, dopo averla già ammaliata con i successi intramontabili della canzone classica napoletana, sulla base di uno scambio paritario e fecondo tra ritmo e melodia.

La sua musica, però, non si ferma, cammina seguendo le tracce dei popoli al di là delle barriere geografiche, etniche e religiose: dall’America latina all’Africa del nord, da Cuba al Medio Oriente, passando attraverso la salsa, il reggae, il samba, il blues, il jazz, la bossanova, fino al madrigale. Napoli per Daniele ha una missione universale che non può essere svilita, secondo una sua affermazione del 2004, dalla mania neomelodica, complice di una visione distorta che i media vogliono dare della cultura napoletana.

Ha creduto fino alla fine che la musica, per Napoli e i Napoletani, era un patrimonio inestimabile in grado di coniugare e unire alto e basso, colto e popolare, ritmico e melodico, antico e moderno, reale e irreale, materiale e immateriale, umano e divino.

Ricordando Massimo Troisi aveva detto: «Massimo ed io eravamo solo due scugnizzi di belle speranze, convinti di poter essere napoletani nel mondo, del mondo, non per forza emigranti… Lui, figlio come me di una generazione che sognava un nuova Napoli, un’Italia diversa… in quel suo humour delicato eppure feroce c’è il meglio di quella Napoli nobilissima capace di non farsi “imprigionare” da tradizioni gloriose e radice profonde, anche se a volte ingombranti». Ciao Pino.

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