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Philip Roth è morto, i suoi romanzi vivranno per sempre

Il cuore di Philip Roth ha smesso di battere a 85 anni in una stanza d’ospedale a New York. La sua penna, come lui stesso aveva dichiarato, aveva scaricato l’inchiostro già da qualche anno. Per fortuna, se lo scrittore di Newark non c’è più, restano i suoi libri. Bisogna ringraziare il Dio della Letteratura che gli ha concesso il talento per riuscire a scriverli.
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Il cuore di Philip Roth ha smesso di battere poche ore fa, a 85 anni in una stanza d'ospedale a New York. La sua penna, come lui stesso aveva dichiarato provocando scalpore, aveva invece scaricato l'inchiostro già da qualche anno. "Non ho più niente da dire"  aveva dichiarato nel 2012. Si sentiva "un animale morente" da tempo, come il titolo di un suo racconto lungo trasposto con poca fortuna (come tutte le pellicole tratte dai suoi romanzi) sul grande schermo. In quanti, tra i grandi e meno grandi che affollano il demimonde letterario, avrebbero avuto il coraggio di smettere così? Era diventato uno "scrittore fantasma" Roth, lo aveva scelto. Un corpo afflitto da diversi mali. Non ha mai avuto l'aria dello scrittore centenario.

Per fortuna, se "Phil" di Newark non c'è più, restano i suoi libri. Bisogna ringraziare il Dio della Letteratura che gli ha concesso il talento per riuscire a scriverli. Tutti ricordano sempre quel romanzo definitivo che è "Pastorale americana", ma sono almeno una decina quelli grandiosi all'interno di una collezione che vanta più di trenta titoli. Più o meno di successo, ma tutti recanti il timbro del gigante. Sin dagli esordi non troppo fortunati, a cui seguirono i fuochi d'artificio che nella società americana degli anni Sessanta furono provocati dal "Lamento di Portnoy", canto dolente e beffardo che lo colloca al vertice della letteratura ebrea in lingua inglese, accanto a mostri sacri e premi Nobel come Saul Bellow, Henry Roth, E. L. Doctorow, Bernard Malamud.

A proposito di Nobel. Ha un sapore stantio la polemica del Premio che non gli è mai stato assegnato. Qualcuno disse che Roth "non amava abbastanza la vita per vincerlo". Forse è vero. Avrebbero meritato libri come "Ho sposato un comunista", "Il teatro di Sabbath" e "La macchia umana" il massimo riconoscimento letterario mondiale? Ovvio che sì. Ma è più importante che si tratti di libri enormi, che probabilmente resteranno al Novecento come i romanzi dei grandi russi al XIX secolo.

Già. Cosa resterà di questo mostro sacro della letteratura? Tutto. Resteranno Zuckerman, il suo alter ego letterario protagonista di tanti suoi capolavori, resterà lo Svedese, resterà Simon Axler. Soprattutto resterà lo sguardo beffardo di questo ebreo poco errante di lingua inglese, venerato dalla critica mondiale, amatissimo dai suoi lettori e da almeno tre generazioni di scrittori in tutto il mondo. Forse un po' meno grande lo hanno ritenuto molte donne. Alcuni ebrei lo hanno detestato come sempre si detesta la propria ferità più bella. Impossibile non ricordare la sua natura beffarda e la sua ossessione per il sesso. Mai raccontata dentro l'alveo banale delle convenzioni e dei limiti fissati dal politically correct e dal suo contrario. Ma con l'ottica dello sfondamento, del viaggio psicoanalitico, della scoperta che tocca i confini umani, animati da un'insopprimibile spinta verso l'estremo. Non antropologico, ma letterario. Un'ultima nota per raccontare a chi non lo sapesse chi era questo scrittore. Il suo ultimo romanzo "Nemesi", del 2010, non è l'ultimo romanzo di uno scrittore che è stato grande, ma è il grande romanzo di un grande scrittore che è stato grande fino all'ultima riga. A quanti grandi sarebbe successo? A nessuno, forse. Philip Roth è morto, i suoi libri vivranno per sempre.

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Scrittore, sceneggiatore, giornalista. Nato a Napoli nel 1979. Il suo ultimo romanzo è "Le creature" (Rizzoli). Collabora con diverse riviste e quotidiani, è redattore della trasmissione Zazà su Rai Radio 3.
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