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Massimo Troisi l’antieroe. Quando diceva: “Vorrei essere come Pasolini”

Massimo Troisi e Pier Paolo Pasolini, analisi di un rapporto tra l’attore e comico napoletano e il regista e scrittore.
A cura di Redazione Napoli
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di Enrico Mascilli Migliorini

Massimo Troisi e Pier Paolo Pasolini non sono un binomio, tanto meno due nomi che viaggiano insieme, anche se circolano foto di Troisi vestito “alla Pasolini” (su Wikipedia ad esempio). Anzi, in questo centenario pasoliniano questo è probabilmente l’unico contributo in cui l’attore napoletano e il poeta bolognese dialogano. Perché uno faceva ridere nei cinema borghesi, l’altro diffondeva il disagio nella borghesia.

Eppure Massimo Troisi era timido, politicizzato e introverso: l’opposto di un attore da film per famiglie. In un’intervista del 1988 alla Rai, caricata su Youtube, dice che queste caratteristiche vivono in lui “con enorme contraddizione”. "Quando la parte politicizzata di me vorrebbe venir fuori e la parte più introversa si chiude in casa”, continua”. "Vorrei essere più come Pasolini e partecipare alla vita sociale e politica in quel modo. Però mi rendo conto che non ce la faccio, non ci riesco, e quindi mi nego".

Una negazione anche imposta, come ricorda l’amico Lello Arena in un’intervista al Manifesto:

Quando andava alle assemblee studentesche chiedeva sempre la parola perché era uno con delle idee già formate. Con un però: il suo stile, la sua mimica facciale e anche un punto di vista strampalato rispetto all’epoca, provocano ilarità. Quindi esprimeva concetti agguerriti con una platea che rideva sempre. Ne usciva addolorato e ci chiedeva: ‘Ma che vita mi aspetta se la gente ride quando dico cose serie?'.

In queste parole ci sono tutte le caratteristiche del Massimo Troisi personaggio della cultura italiana; l'attualità dei suoi interventi e la rinuncia a far seguire a questi una vera azione politica. Così in Troisi vivono, più che in altri comici a lui contemporanei, la necessità di evadere dal mondo reale e il bisogno di criticarlo comunque.

La Smorfia di Troisi, Arena e De Caro e il Cioni Mario di Roberto Benigni sono più simili che Totò-Troisi. Perché hanno alla base la necessità di rompere l'incomunicabilità, che ritorna in Troisi in un suo stile quasi grammelot, timido e masticato. Si allontana da quella comicità tipicamente napoletana e, soprattutto a inizio carriera, gioca poco con i luoghi comuni. Così la spinta dell'artista non è, per dirla alla Totò, il pane, ma la ricerca di una forma di comunicazione. In questo senso Troisi impersonifica la Teoria dei bisogni radicali che rese Agnes Heller la portavoce di tanti giovani.

Non a caso in Italia il movimento del '77, ancor più di quello del '68, aveva colto l'attualità dirompente e ribelle di Totò e del suo particolare non-sense. Troisi si inserisce in questo filone con «Morto Troisi, Viva Troisi!», accompagnato da Carlo Verdone, Roberto Benigni e Maurizio Nichetti, simboli di una nuova comicità paranormale e schizofrenica. Troisi si avvicina così ai problemi di una generazione che vive la disfatta di un sogno rivoluzionario ormai terminato, che non crede nell'istruzione e non vede nel lavoro una forma di nobilitazione dell'anima. Nel 1976 i diplomati senza occupazione sono 900mila, mentre l'aspettativa per un primo impiego per i neolaureati era passata dai sei mesi del 1973 a un anno.

Sono gli ultimi respiri degli anni '70, gli anni dei "non garantiti", che Andrea Pazienza, altro artista/comico, traduce nelle sue storie in una mancata fiducia che aveva lasciato il posto alla disillusione, soprattutto nella fattispecie di Penthotal, nome di un suo personaggio e di un potente anestetico. Si comprende così meglio Gaetano, protagonista dell'esordio alla regia di Troisi "Ricomincio da tre", un confuso Don Chisciotte che lotta contro gli stereotipi, ma che fatica a staccarsi da quella tradizione in cui pur si riconosce per abbandonarsi, infine, a un mondo nuovo segnato dall'emancipazione femminista.
In "Non ci resta che piangere" il mondo reale e razionale crolla. La data della scoperta dell'America è falsa e mette in dubbio tutte le certezze del maestro elementare Benigni. Per non dire del genio Leonardo da Vinci che non sa giocare a scopa.

Un attore che reinventa Pulcinella nel Capitan Fracassa di Ettore Scola, che fa riscoprire Napoli a Marcello Mastroianni e che lotta anche contro sé stesso. In questa ottica, infatti, lo stesso Troisi rivela che il suo personaggio preferito nel cinema italiano è Nanni Moretti non solo per le doti artistiche, ma soprattutto perché "si è preso il peso della fama dello stronzo, tutti lo odiano ma intanto può dire sempre quello che vuole".

Questo periodo coincide con l'allontanamento dalle scene:

Evito di fare satira politica, perché se ti limiti a dire che Andreotti è gobbo e Fanfani è corto, finisci per fare il loro gioco, ti metti la coscienza apposto e aiuti la DC a sembrare più democratica perché ti fa passare le battute.

Se un regime ti permette di giocare ci guadagna, però seguivo la comicità sbagliata. Bastava entrare in un teatro e vedere Dario Fo e si capiva che si poteva fare satira, dicendo cose indigeste, con l'unica tassa da pagare di non rientrare nella comicità ufficiale, dove io rientro.
Vorrei raccontare la rabbia, l'indignazione e l'impotenza di vivere in questa società, in questa situazione politica. Vorrei, con il cinema, poter smuovere almeno una coscienza.

Diceva questo ai tempi di "Pensavo fosse amore e invece era un calesse", un film in cui Troisi inscena un altro antieroe, l’ultimo prima de Il Postino, questa volta antiromantico. Il suo gesto rivoluzionario è di chiudere con ogni mezzo di comunicazione: con la televisione, il telefono, gli amici e la fidanzata. Poi si lascia morire. "Era la rabbia di non poter smuovere le cose, la vergogna di essersi fatti da parte solo perché non ci sono gli strumenti ed il modo di cambiare. Hanno tolto valore alle parole, perché sempre in tv si poteva dire che Craxi ruba, e però nonostante questo non cambia nulla”. Un film in cui l'eroe è chi ha il coraggio di dire "ho il pudore di star zitto".

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