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“Il numero dei suicidi torna a preoccupare. Il carcere continua ad uccidere”

Intervento di Samuele Ciambriello, Garante Campano dei detenuti: Luigi e Alfonso sono i nomi dei due uomini che in meno di 48 ore hanno messo fine alla loro vita nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere e Poggioreale. Dei 29 detenuti che su tutto il territorio nazionale si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, si arriva a quota 6 vittime per la Campania.
di Samuele Ciambriello
Garante Campano dei detenuti
A cura di Redazione Napoli
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Luigi e Alfonso sono i nomi dei due uomini che in meno di 48 ore hanno messo fine alla loro vita nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere e Poggioreale. Dei 29 detenuti che su tutto il territorio nazionale si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, si arriva a quota 6 vittime per la Campania. Dopo un calo del 40% dei suicidi negli istituti penitenziari della regione nel 2019 rispetto all’anno precedente, i dati di questo primo semestre tornano ad essere allarmanti. Anche se i suicidi sono ascrivibili a diverse motivazioni, il carcere continua ad uccidere. Nonostante il numero di detenuti nelle carceri italiane sia sceso del 13,9%, arginare il problema del sovraffollamento non basta a contrastare il malessere, il degrado e la solitudine della vita in carcere. In questo periodo di distanziamento sociale dovuto all’emergenza sanitaria sono ancor più venuti a mancare i contatti con i propri affetti, la comunicazione, l’ascolto e la presenza di figure sociali, producendo un evidente senso di abbandono e arrendevolezza. Continuo a ribadire la necessita di implementare progetti rieducativi e umanizzanti, distribuendoli su tutto il corso della giornata, al fine di combattere l’isolamento.

Chiedo a tutti, ognuno per la sua parte, di assumersi l’impegno di riflettere e intervenire. Bisogna sconfiggere insieme l’indifferenza a questo stato di cose, coinvolgendo istituzioni e parti sociali. Il tema della prevenzione dei suicidi non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità solo di chi si trova a gestire il carcere ma richiama alla responsabilità il mondo della cultura, dell’informazione, dell’amministrazione centrale e locale, e soprattutto della politica nazionale che troppe volte in maniera cinica coniuga il populismo penale con quello politico. La perdita di tali vite a un ritmo più che settimanale non produce sussulti, non assume quel rilievo come tema, che nella sua drammaticità dovrebbe avviare ad una effettiva riflessione ed elaborazione delle marginalità individuali e sociali che la nostra attuale organizzazione sociale produce. Negli istituti di pena si concentrano gruppi vulnerabili che sono tradizionalmente quelli in cui rientrano i soggetti a rischio suicidario, ovvero giovani, persone con disturbi mentali, persone socialmente isolate, con problemi relazionali, di abuso di sostanze, e con storie di precedenti comportamenti auto ed etero lesivi. Bisogna andare oltre l’attuazione di quel protocollo anti-suicidario che si applica in condizioni normali, ma che non dà buoni risultati in un’ottica che tenga conto della complessità di queste vite e dei bisogni delle nuove utenze.

Va rafforzato, a tal proposito, il sistema di prevenzione agendo con una maggiore formazione specifica per gli agenti di polizia, per l’area educativa, e per il mondo del volontariato che entra nelle carceri, al fine di prevenire e intuire il disagio che poi porta al suicidio. È necessario inoltre un adeguando degli interventi, con azioni congiunte che uniscano gli operatori di “dentro” e quelli del “fuori”. Affinché si possa fornire una risposta complessa ad un fenomeno di tale portata, non dimenticando coloro che hanno provato a suicidarsi, e che vivono le diverse forme di autolesionismo nelle carceri.

Le galere servono a togliere la libertà, non la vita.

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