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Lidia Macchi, uccisa 35 anni fa da un assassino mai trovato: “L’unica possibilità è che qualcuno parli”

A 35 anni dall’omicidio di Lidia Macchi il suo assassino non ha ancora un nome. A Fanpage.it l’avvocato Daniele Pizzi, che ha rappresentato per tutti questi anni la famiglia Macchi, spiega che si arriverà alla verità solo se qualcuno deciderà finalmente di parlare.
A cura di Giorgia Venturini
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"Qualcuno deve parlare, è l'unica strada possibile per arrivare alla verità". Trentacinque anni dopo l'omicidio di Lidia Macchi l'avvocato della famiglia, Daniele Pizzi, racconta a Fanpage.it le poche certezze e i tanti misteri che avvolgono la morte di Lidia, scomparsa il 5 gennaio del 1987 e trovata senza vita due giorni dopo in una zona boschiva vicino alla ferrovia di Cittiglio, in località Sass Pinin, in provincia di Varese. Chi è stato prima a violentarla e poi a ucciderla resta ancora senza nome: l'unico a finire sul banco degli imputati fu l'amico di Lidia Stefano Binda, assolto in via definitiva lo scorso anno dalla Cassazione. Da allora tutto si è riazzerato. "Oggi alcuni testimoni sono morti, alcuni reperti non sono stati più trovati. Alcune tracce contenente dna ora non sono più riutilizzabili – precisa l'avvocato Pizzi -. Come arrivare alla verità? Qualcuno deve parlare".

Le poche certezze sull'omicidio

Già. Perché le prove in mano agli inquirenti in tutti questi 35 anni non sono state sufficienti a dare un nome all'omicida di Lidia. Servono elementi nuovi, nuove confessioni e particolari. Insomma, serve che chiunque sappia cosa sia successo la sera del 5 gennaio 1987 parli. Perché ad oggi le certezze sono poche: quel giorno Lidia prese la macchina dei genitori, una Fiata Panda, per andare a far visita a un'amica all'ospedale di Cittiglio, in provincia di Varese. Si trattenne nella stanza dell'amica circa mezz'ora, vero le 20.10 uscì e si mise di nuovo alla guida. Quello che accadde dopo resta ancora oggi un mistero. A lanciare l'allarme erano stati i suoi genitori che non la videro rientrare a casa per cena. Lidia scomparve dal nulla. Forze dell'ordine, amici e parenti iniziarono le ricerche: trovarono il corpo il 7 gennaio in un bosco, vicino alla sua auto e coperta da un cartone. Gli accertamenti sul cadavere diranno che Lidia è stata prima violentata e poi uccisa a coltellate. Le indagini non portarono al nome dell'assassino: "Credo che si sia sbagliato qualcosa durante le indagini e gli accertamenti. Certo, dobbiamo anche considerare che nel 1987 non c'erano tutti gli strumenti e mezzi di ora. Tante le criticità delle analisi dell'epoca. Basti pensare che all'epoca non esisteva il telefonino, questo vuol dire nessuna cella telefonica o tabulati. Così come le analisi del Dna", spiega Pizzi.

La lettera anonima e la sua busta scomparsa

Negli ultimi anni le indagini si sono concentrate su quella lettera anonima arrivata a casa della famiglia Macchi pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo di Lidia. In mezzo ad altri messaggi di cordoglio a far insospettire i genitori era stata una lettera non firmata intitolata "In morte di un'amica" arrivata il giorno dei funerali della ragazza. All'interno c'erano riferimenti all'omicidio. Anche qualche dettaglio particolare che poteva conoscere solo l'omicida? "C'è chi pensò di sì. Ma si fece riferimento al cielo stellato e alla verginità di Lidia. Elementi non sufficienti per fare dell'autore l'assassino. Era un componimento in versi, con fare poetico e religioso con alcuni particolari macabri". La lettera negli ultimi anni venne attribuita a Stefano Binda: per alcuni esperti non c'erano dubbi che si trattava della stessa calligrafia, ma davanti alle autorità giudiziarie Binda negò e questo fece aumentare ancora di più i sospetti tanto che si avviò un procedimento penale nei suoi confronti che si è concluso neanche un anno fa. La sentenza di primo grado il 24 aprile del 2018 lo aveva condannato all'ergastolo, in secondo grado i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Milano gli hanno però dato ragione. E lo fece anche la Cassazione confermando la sua innocenza.

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"Per i giudici della Corte d'Appello anche se si provasse con l'assoluta certezza che sia Binda l'autore della lettera automaticamente non significherebbe che fosse anche l'autore dell'omicidio". Oggi mistero nel mistero è che la busta che conteneva la lettera, e quindi elemento importante per altre possibile tracce di dna, è scomparsa: "Da circa un anno e mezzo non si sa più dove sia. E si trattava di qualcosa molto importante per le indagini", denuncia l'avvocato Pizzi.

I giudici della Corte d'Appello del processo a Binda suggerirono però un'altra pista investigativa: consigliarono di concentrare nuove attenzioni su un capello trovato sul corpo di Lidia quando era stato riesumato nel febbraio del 2016. Come spiega l'avvocato a Fanpage.it, sui resti della ragazza vennero trovate tre formazioni pilifere – non si sa se siano capelli o peli – che non appartengono né a Lidia né ai suoi famigliari. Così come è certo che non appartengano a Binda. "Non sarebbero comunque sufficienti per arrivare all'assassino. A distanza di così tanto tempo questi peli o capelli potrebbero essere anche degli addetti delle pompe funebri o dei tanti amici che prima dei funerali hanno voluto dare l'ultimo saluto a Lidia. Inoltre queste formazioni contengono solo dna mitocontriale e non nucleare: al massimo quindi si potrà arrivare a sostenere la compatibilità tra due dna. Potrebbe dunque solo scagionare possibili indagati ma mai arrivare a confermare il nome dell'assassino". I peli vennero confrontati con tutte le persone di cui gli inquirenti erano già in possesso del profilo, ma non ci fu nessuno sviluppo.

La pista Piccolomo

Nel corso degli anni i sospetti non sono caduti solo su Binda. Un'altra pista che seguirono gli investigatori era quella su Giuseppe Piccolomo, l'assassino dell'anziana Carla Molinari per il cui omicidio sta scontando una condanna all'ergastolo in carcere. Era il 5 novembre del 2009 quando colpì con 23 coltellate l'anziana, una pensionata di Cocquio Trevisago, nel Varesotto. L'uomo le tagliò la gola con una forza tale da decapitarla e la mutilò mozzandole le mani. Per quest'omicidio per anni gli inquirenti seguirono la pista dei motivi economici, mai però confermata nel corso del tempo. Piccolomo era stato anche condannato all'ergastolo in primo grado per l'omicidio della moglie Marisa Maldera, trovata morta carbonizzata all’interno della sua auto nel 2003. Ma la Corte d'Assise d'Appello di Milano ha annullato la sentenza perché già condannato per questo reato: gli avvocati infatti patteggiarono una pena a un anno e tre mesi nel 2006. Ma cosa c'entra Piccolomo con Lidia Macchi? A far insospettire gli inquirenti furono principalmente quattro indizi: il primo è che le figlie di Piccolomo rivelarono che il padre più volte le aveva minacciate di far fare loro la fine di Lidia Macchi. Secondo, la casa dell'uomo distava solo poche centinaia di metri dal luogo dell'omicidio. Terzo, il corpo di Lidia era stato trovato coperto da un cartone di cui Piccolomo poteva essere facilmente in possesso, perché poteva essere simile a quello che conteneva i nuovi mobili delle camere delle figlie. E, quarto elemento, il suo identikit coincideva con quello fatto da alcune donne che avevano subìto un tentativo di molestia nel parcheggio dell'ospedale sempre di Cittiglio.

"Tutti indizi che però non riuscirono a trovare una conferma. Piccolomo non andò mai a processo per la morte di Lidia Macchi. Unica possibilità? Che lui parli dal carcere. Ma nel caso fosse lui l'assassino, difficilmente confesserebbe. Non ha mai neanche confessato l'omicidio di Carla Molinari per cui sta scontando l'ergastolo". Chi ha ucciso dunque Lidia Macchi? "Non è un reato che si prescrive. Gli elementi ad oggi però non sono sufficienti. Per questo è necessario che qualcuno parli", conclude l'avvocato Pizzi. Solo così una famiglia che attende giustizia saprà cosa è accaduto a Lidia quella sera di 35 anni fa.

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