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Legge di Stabilità 2015: ultimo assalto alla diligenza

L’assalto alla diligenza porta il Senato a votare la Legge di Stabilità a notte fonda su un testo confuso infarcito di rimandi a successivi decreti. Ma al netto di uno spettacolo indecoroso, i problemi economici e culturali stanno a monte, da anni…
A cura di Luca Spoldi
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Un testo di 299 pagine ancora zeppo di correzioni fatte a mano e composto di un unico articolo che sostituisce tutti gli altri, articolato su 755 commi nei quali trovano spazio le misure più disparate, quasi sempre con rimandi a successivi decreti ministeriali che dovranno nel concreto chiarire chi, come e quanto avrà diritto alle varie misure, sconti, agevolazioni o (al contrario) ai maggiori oneri che la Legge di Stabilità 2015 prevede. Con l’ormai consueto “maxiemendamento” (qui il testo) che il governo ha presentato al testo della legge da lui stesso proposta al Parlamento si dovrebbe essere chiuso (la parola definitiva spetterà alla Camera per l’ultimo passaggio destinato ad approvare, senza ulteriori variazioni, il testo emerso nella notte tra venerdì 19 e sabato 20 dicembre) l’iter di approvazione di una delle più tormentate “manovre” di bilancio di questi ultimi anni.

Una pagina francamente vergognosa e indegna di un paese che vorrebbe dirsi civile ma si conferma ogni giorno di più fallito sotto ogni profilo, culturale od economico che sia. Eppure scorrendo la rassegna stampa e ancor più assistendo ai dibattiti che puntualmente sono stati avviati “il giorno dopo” (in Italia come noto si fa poco e male, ma si chiacchiera moltissimo, senza peraltro alcun frutto) si capisce che i problemi stanno altrove, che sono molto più gravi di una deprecabile impreparazione di ministri, viceministri, sottosegretari e staff tutti, della incapacità di resistere, se non a parole, al consueto “assalto alla diligenza” che ogni anno da decenni accompagna il varo della legge finanziaria.

Il problema è che in Italia non siamo più (o non siamo mai stati) d’accordo su niente. C’è chi imputa la colpa della crisi all’Europa e chi la difende. C’è chi vorrebbe battersi per avere più solidarietà a livello europeo e chi fieramente difende il proprio micro territorio e non vuole essere accumunato né amministrativamente né culturalmente al comune, alla provincia, alla regione di fianco alla sua. Chi ritiene che l’Italia andrebbe divisa solo in 10 macro regioni, anzi meglio solo due (Est e Ovest, ciascuna da nord a sud così da avere gli stessi vantaggi e le stesse difficoltà con cui fare i conti) e chi continua a proporre una secessione dei “virtuosi” dai “reprobi”. C’è chi pensa che il problema sia che c’è poco stato e chi pensa che ce ne sia troppo, chi si lamenta dell’eccessiva burocratizzazione europea e chi sottolinea che per fortuna esistono le regole comunitarie, altrimenti sarebbe ancora peggio. Chi vorrebbe premiare, fiscalmente, la qualità e le competenze e chi propone flat tax uguali per tutti, chi vuole pagare una RC Auto su misura per il suo Comune e chi vorrebbe un'aliquota nazionale unica per evitare eccessivi premi o penalizzazioni.

E’ questo il male di tutti i mali, che condanna l’Italia alla sua totale e assoluta irrilevanza sul piano politico internazionale: la continua divisione al suo interno, l’oscillare dei suoi provvedimenti legislativi, in ogni campo, da quello fiscale a quello amministrativo, da quello giudiziario a quello economico. L’abitudine inveterata a indicare colpevoli e problemi senza mai (o quasi mai) indicare le soluzioni e i soggetti che potrebbero farsi carico dell’implementazione delle stesse. Di fronte a un quadro così sconfortante persino l’analista finanziario si chiede se abbia senso notare che il governo con questa finanziaria penalizza il risparmio previdenziale, alzando la tassazione sui risultati maturati dalla casse di previdenza dal 20% al 26% e quelli dei fondi pensione dall’11,5% al 20% (salvo il riconoscimento di crediti d’imposta per “attività di carattere finanziario a medio o lungo termine” che, bontà loro, verranno “individuate con decreto del ministro dell’Economia e delle finanze”).

O se si debbano levare grida di dolore per i freelance che non potranno più accedere al regime di minimi se supereranno i 20 mila euro annui di reddito imponibile cumulato (ma poteva andare peggio: poteva rimanere il limite di 15 mila euro inizialmente individuato dal governo), piuttosto che per il fatto che lo stesso regime dei minimi è sostanzialmente morto e questo verosimilmente non favorirà l’emersione di posizioni “in nero”, semmai tenderà ad aumentarle per una fascia di lavoratori che già ora occupano posizioni svantaggiate e marginali (a parte al sottoscritto, davvero non viene a nessuno il sospetto che parte della “disoccupazione giovanile” sia dovuta oltre che alla crisi alla pratica di retribuire in tutto o in parte “in nero” i dipendenti neoassunti, specie nel caso di coloro che lavorano per piccole o micro imprese, per ridurre il carico fiscale che altrimenti renderebbe non conveniente la collaborazione da entrambe le parti?).

Poi sì, qualcuno con giusta ragione ci farà notare che siamo in una condizioned’emergenza” (da almeno vent’anni, per la verità), che con le risorse attuali era impossibile fare di più, che comunque ci sono alcune novità positive anche per i contribuenti, come il minor taglio alle risorse da destinare a sgravi contributivi per la contrattazione di secondo livello (quella legata alla produttività aziendale), passate dai 283 milioni previsti nel testo approvato in prima lettura dalla Camera a 208 milioni, che (almeno) nel caso dell’Irap, che resta di per sé una tassa iniqua che andrebbe semplicemente eliminata appena possibile, anche per lavoratori autonomi e aziende con zero dipendenti arriva un credito d’imposta del 10% appunto sull’Irap per compensare il ripristino con effetto retroattivo delle aliquote Irap che il “decreto Irpef” aveva sforbiciato appunto del 10%. Poi qualcuno ci spiegherà che misure come il ricollocamento dei 20 mila e più dipendenti pubblici delle Provincie che rischiavano di perdere il posto e invece finiranno per due anni in uffici di Comuni e Regioni è una misura di equità e contemporaneamente di efficientamento (perché dopo due anni dovranno trovarsi comunque un altro posti di lavoro), una sorte di “outplacement” pubblico insomma.

Sarà pur vero, ma al netto di pro e contro su singole punture di spillo, la sensazione dell’analista è che non stia cambiando nulla, se non in peggio, che l’Italia sia fallita e che chi comanda lo sappia bene ma non abbia alcun interesse ad ammetterlo né alcuna idea di cosa fare ora se non tentare di difendere il più a lungo possibile quel che resta di “un grande avvenire dietro le spalle”. La situazione mi ricorda lo svolgimento di certe battaglie medioevali in cui gli assedianti entrano pian piano nei cortili più interni del castello, fino all’ultima resistenza attorno al torrione centrale, armi in pugno, di pochi valorosi attorno al sovrano, prima dell’inevitabile resa o massacro finale. Forse avrò visto troppi film di fantasy in questo periodo natalizio, ma dalla Legge di Stabilità 2015 non mi pare di scorgere alcuna strategia per rompere l’assedio, tanto meno per rovesciare le sorti della battaglia. Sempre sperando, come ogni anno ormai da quasi vent’anni, di sbagliarmi, ovviamente, tanto più che so per esperienza diretta che aziende eccellenti, lavoratori autonomi o dipendenti eccellenti, validi manager e banchieri e persino qualche politico onesto e competente pure resiste in questo paese, anche se troppo spesso fatica a trovare spazio e visibilità.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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