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Opinioni

La crisi è un problema italiano, non europeo

Anche le stime provvisorie del Pil del terzo trimestre confermano: l’Italia è l’unico grande paese d’Europa a rimanere in recessione. Verrà a qualcuno il sospetto che forse stiamo sbagliando strategia? Speriamo…
A cura di Luca Spoldi
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Ennesima giornata “di ordinaria paura” per la borsa di Milano, che riesce a chiudere in rialzo solo grazie a buoni dati macroeconomici americani (vendite al dettaglio in crescita dello 0,3% a ottobre rispetto al mese precedente, contro attese di +0,2%), dopo aver visto per lunghi tratti gli indici oscillare in territorio negativo a causa di altri dati, quelli riferiti alla variazione del Prodotto interno lordo (Pil) nei 28 paesi dell’Unione europea nel terzo trimestre. Dati che ancora una volta mostrano inequivocabilmente come la crisi economica resti un problema marcatamente italiano più che europeo. Se nel terzo trimestre dell’anno il Pil di Eurolandia è salito dello 0,2% (+0,3% quello della Ue-28), ovvero del +0,8% (+1,3% per la Ue-28) su base annua, nel caso dell’ex “bel paese” i numeri sono infatti molto diversi e testimoniano come l’economia resti in recessione per il quarto anno consecutivo.

Non solo: oltre all’Italia (-0,1%) l’unico tra i Ventotto paesi della Ue a segnare nel trimestre da poco concluso una variazione negativa del Pil è Cipro (-0,4%), paese che ha rischiato un anno e mezzo fa di uscire dall’area dell’euro ed è stato “salvato” in extremis attraverso una procedura di “bail in” che ha fatto ricadere (a differenza che nei casi dei precedenti di Irlanda, Portogallo e Grecia) una parte consistente degli oneri sulle spalle di azionisti, obbligazionisti e depositanti delle banche cipriote (procedura che il G20 che si terrà nel fine settimana in Australia potrebbe, come detto, far diventare la norma, anche a rischio di veder i più facoltosi clienti delle maggiori banche mondiali cercare un’alternativa ai depositi bancari).

Su base annua tengono invece compagnia all’Italia (-0,4%) sia Cipro (-2%) sia la Finlandia (-0,3%), paese che già da tempo si sta interrogando sul perché sia finito (e rimasto) in crisi visto che i suoi costi del lavoro erano già più bassi di quelli medi europei, a differenza di quello che accade in Italia in gran parte a causa di un “cuneo fiscale” che sfiancherebbe, francamente, anche un cavallo da tiro (e per riequilibrare il quale sarebbero necessarie dieci manovre come quella che l’Italia sempre apprestarsi a varare, al di là della propaganda). Se aveste mai avuto qualche sospetto che la “austerità” (fiscale o di qualunque genere) non potesse essere portatrice di ripresa, quanto meno a breve termine (dove per “breve” si devono intendere alcuni anni, non trimestri), vi potete congratulare con voi stessi: i dati odierni vi danno ragione. Se invece state ragionando di come l’Italia (o quanto meno voi stessi) possa uscire alla recessione, temo dovrete aspettare ancora qualche tempo prima di battervi le mani.

Vedete, per alcuni versi il problema è di una semplicità disarmante: con 2.100 miliardi e rotti di debito pubblico pregresso, per il 70% e oltre in mano a investitori italiani (banche e loro clienti), che cresce ad un tasso medio annuo vicino al 4% nominale l’economia italiana dovrebbe crescere almeno di un 2% reale annuo e sperare in un’inflazione “benigna” e poco preoccupante (per i mercati) tra l’1% e il 2% annuo solo per mantenere in piedi la baracca. Ma l’Italia da oltre 15 anni cresce mediamente dello 0,6% all’anno in termini reali e l’inflazione è “risalita” in Eurolandia allo 0,4% annuo sempre a ottobre, contro lo 0,3% segnato a settembre. Notate che pure in questo caso la Ue mostra profonde crepe al suo interno, con paesi come la Grecia o la Bulgaria ormai in profonda deflazione (-1,8% e -1,5% annuo rispettivamente), altri che traccheggiano tra uno 0,3% di deflazione e uno 0,3% di “inflazione” (tra questi l’Italia, dove la crescita dei prezzi al consumo rispetto a ottobre 2013 è stata pari allo 0,2%) e chi come Finlandia, Gran Bretagna, Austria e Romania vede l’inflazione “correre” tra l’1,2% e l’1,8% all’anno già adesso.

La Germania, che registra con uno 0,7% di inflazione, negli ultimi sei mesi ha sempre visto il tasso mantenersi inferiore all’1% annuo (salvo in giugno, quando venne toccata brevemente tale soglia) ed in teoria non dovrebbe opporsi a misure “pro crescita” che possano essere varate dalla Bce o dalla Commissione Ue. Ma a parte che tra la teoria e la pratica il governo di Angela Merkel non vorrà offrire alcun pretesto all’opposizione interna (che per differenziarsi dalla linea governativa si sta sempre più arroccando su posizioni “no euro” ed è e ferocemente contraria a qualsiasi forma di aiuto da parte di Mario Draghi agli stati “reprobi” del Sud Europa, Italia in testa), è difficile pensare che abbandonerà il sostegno al neopresidente della Commissione Ue, Jean-Claude Junker, nei cui confronti Matteo Renzi sembra alternare una carezza (quando come oggi fa presentare progetti per 40 miliardi di investimenti per il triennio 2015-2017) e un pugno (quando sembra tentato dal cavalcare lo scandalo Luxleak, che di fatto scandalo non è visto che tutti i governi, quello italiano compreso, sono ben a conscenza del “fiscal ruling” messo in atto dal Granducato e tollerato dai governi nazionali per avere un’arma di “contrattazione” nei confronti delle grandi multinazionali europee e mondiali).

Insomma: non aspettiamoci grandi aiuti dalla Germania e dalla Ue, almeno non senza che prima si sia offerto qualcosa di concreto in cambio. E qui si ritorna, come in un infinito gioco dell’oca, al tema delle riforme strutturali, finora disattese sistematicamente da un paese che, condannato dal proprio quadro demografico e dalla tendenza al compromesso non meno che diviso al suo interno da troppe lobbies e corporazioni, non è riuscito a varare quasi alcuna riforma degna di tale nome dai tempi della riforma della previdenza voluta negli anni Novanta dall’allora premier Lamberto Dini. Resta intatto dunque il problema di fondo: per far voltare pagina all’Italia occorre farla “atterrare” nella realtà odierna. Occorre iniziare a pensare quali settori siano realmente strategici, come incentivare la diffusione dell’innovazione, come far entrare finalmente milioni di giovani nel mercato del lavoro, come evitare di strangolare migliaia di aziende a causa di burocrazia e fisco, come riuscire a far ripartire i consumi al di là di misure temporanee e inefficienti, oltre che scarsamente eque (nonostante le dichiarazioni opposte), come il “bonus da 80 euro” o, peggio, il “tfr in busta paga”.

Misure, per di più, varate mentre si inasprisce il regime dei minimi per i lavoratori autonomi e si innalza il peso fiscale per le piccole imprese sulla base dell'idea che in passato a pagare sono stati sempre e solo i lavoratori dipendenti e dunque ora è il turno degli “altri” di pagare, anche se già faticano ad arrivare a fine mese. No, così non va: se non si cambierà modo di concepire il lavoro, il credito e il rapporto tra capitale e lavoro questo paese non si salverà né ora né in futuro. Semmai si tireranno alla lunga le esequie, col rischio che prima di voltare pagina e poter ripartire, dopo lunghe sofferenze, debbano passare ancora non uno o due anni, ma 10, 15, forse 2o. Sarebbe una soluzione alla giapponese che porta a risolvere i problemi solo “mortis causa”, una volta che siano fisicamente rimossi i diretti interessati.

A quel punto la generazione attuale di chi è al lavoro e di chi non riesce a entrarvi sarà bruciata, quella successiva, dei nostri figli, dovrà ripartire dopo aver visto il paese accumulare un pesante distacco dai suoi principali concorrenti e, probabilmente, venire spogliato delle sue aziende, dei suoi marchi e delle sue tecnologie migliori. Che pure esistono e potrebbero essere i punti di forza su cui fare leva. Unica piccola luce, sempre molto in fondo al tunnel? Le nostre banche, come ricordato, stanno leggermente meglio di come stessero alcuni trimestri or sono, mentre alcune nostre aziende (ho già ricordato il caso di La Doria) continuano a veder crescere fatturato e utili rimanendo in Italia (ma vendendo all'estero). E’ ancora un passo da formica del tutto insufficiente a sostenere la ripresa, ma anche in pieno inverno la quantità di luce torna a crescere nell’arco della giornata senza che quasi nessuno se ne accorga se non in primavera.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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