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La Buona Scuola: ecco perché il video di Renzi alla lavagna è da bocciare

Al mondo della scuola in fermento, tra prove invalsi e sciopero, Renzi risponde con un videomessaggio, che non manca di demonizzare le proteste. Ecco un debunking punto per punto.
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A cura di Roberta Covelli
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Dopo i cortei di insegnanti e studenti che hanno affollato le città italiane per lo sciopero del 5 maggio e le (deludenti) aperture da parte del Governo, Renzi si rivolge alla telecamera con lavagna e gessetti colorati, consegnando a YouTube un video per difendere la riforma cosiddetta #buonascuola.

Camicia bianca, cravatta nera sottile, il premier chiede di dedicare cinque minuti di attenzione al dibattito sulla scuola, anche se poi per spiegarsi ne impiegherà quasi diciotto.
L'introduzione è classica e si inserisce perfettamente nella narrazione renziana: l'aver battezzato la riforma dell'istruzione #buonascuola parrebbe proprio l'espediente migliore per comprimere gli spazi comunicativi del dissenso. Lo slogan più ripetuto da studenti e insegnanti non poteva quindi che essere “La buona scuola siamo noi” (sottinteso: non quella della riforma). E Renzi usa proprio quel concetto per introdurre retoricamente il tema: “La buona scuola c'è già, in Italia: è la professoressa che nonostante il controsoffitto o le difficoltà della banda larga insegna ai ragazzi ad allargare il cuore con una poesia…”. L'esaltazione del singolo (che già si poteva notare in uno dei primi videomessaggi, quello sul Jobs act, con le esperienze inventate di Marta e Giuseppe) viene dopo la tipica demonizzazione delle ‘formazioni sociali', come le definirebbe la Costituzione: e quindi, prima di citare i sindacati, assicura che “non apprezzo certi toni, certe polemiche, i boicottaggi di chi non vuole far partecipare i ragazzi all'Invalsi”. E qui sta forse la prima inesattezza: perché il boicottaggio non proveniva solo dai professori, ma la protesta era anche, se non soprattutto, studentesca.
Il discorso tocca quindi la stima positiva sul Pil: il dato viene sminuito, perché “non servirà a niente tornare a crescere nelle statistiche, se non torniamo a crescere nelle scuole”. Eppure, quel +0,3% sarà ripetuto ancora, nel discorso, con malcelata vanteria.
Superando l'introduzione, comunque, si arriva ai temi della riforma, “anzi, non chiamiamola riforma che non ne possiamo più”: cinque punti, cui si cerca di restare aderenti nella contestualizzazione.

1) Alternanza scuola-lavoro

Definita come “la cosa più urgente, non la cosa più importante”, per il progetto si promettono investimenti per 100 milioni. Il motivo della sua urgenza, secondo Renzi, starebbe nelle statistiche sulla disoccupazione giovanile, ormai superiore al 40%. Al di là dell'ormai sdoganato pensiero secondo cui la scuola dovrebbe essere una semplice anticamera del mercato, invece che un luogo di crescita culturale, i dubbi che è lecito porsi su un discorso del genere riguardano, appunto, il mondo del lavoro.
Innanzitutto, estendere l'alternanza scuola-lavoro a tutto l'anno, invece che a specifici periodi, rischia di rendere gli studenti, per le mansioni più semplici, dei lavoratori a basso prezzo, con prevedibili ricadute in termini di ‘concorrenza sleale' verso coloro che studenti non sono.
In secondo luogo, bisognerebbe capire se ci sono interventi strutturali per ridurre la disoccupazione giovanile, oltre alla #buonascuola. Uno di questi sarebbe dovuto essere Garanzia Giovani: partita da poco più di un anno e decantata al tempo da Poletti come una “novità straordinaria”, secondo la raccomandazione del Consiglio Ue sul tema avrebbe dovuto proporre ai giovani fino ai 25 anni (fino ai 29 nel sistema italiano) “un'offerta qualitativamente valida”. A un anno di distanza, tuttavia, l'analisi dei risultati non è consolante: perfino Renzi ha dichiarato “I numeri della Garanzia giovani non sono quella botta di vita che ci aspettavamo, anzi che qualcuno si aspettava. Non a caso, io ne parlo abbastanza poco”. E infatti solo il 14,2% dei giovani iscritti ha ottenuto una proposta di lavoro concreta e, tra le offerte, spiccavano anche impieghi che andavano dal gelataio alla dama di compagnia, e che non si possono considerare “qualitativamente validi”, come la raccomandazione richiedeva.

2) Cultura umanista

A prescindere dall'errore (“umanista” è un sostantivo, la dizione corretta sarebbe stata “umanistica”), questo punto parrebbe riportare la scuola al ruolo culturale che dovrebbe avere. I minuti dedicati al tema, tuttavia, non chiariscono l'argomento: si parla di investire di più in determinate materie, senza ridurre l'importanza di quelle scientifiche, ma non si spiega come ciò dovrebbe avvenire e l'argomentazione si riduce alla voce caricaturale con cui Renzi afferma che non bisognerebbe occuparsi solo di “skills e curricula” o al racconto della conversazione con Fabiola Giannotti che ricorda il suo liceo classico.

3) + soldi agli insegnanti

Dice Renzi che gli insegnanti sono poco pagati, hanno perso una parte di autorevolezza sociale, a differenza della maestra Eda, del Matteo bambino, che quando entrava nel bar del paese era rispettata “come il farmacista, come il maresciallo, come il parroco”. Questo svilimento, oltre che un problema di relazione tra genitori e insegnanti, narrato ovviamente in termini aneddotici (“Quando mio padre era chiamato da un professore per dire che mi ero comportato male dava la colpa a me”), sarà risolto dal Governo con 500 euro all'anno in più a ogni insegnante. Come per gli ottanta euro, la soluzione è rivolta all'individuo, al singolo insegnante, mentre le forme di aggregazione vengono umiliate riducendole a “tre fischi” che non fermeranno il cambiamento, definendo “squadristi” insegnanti e genitori che hanno contestato il ministro Giannini o addossando ai sindacati le colpe dei problemi della scuola, come ha fatto il ministro Boschi, aderendo all'eterno attacco renziano sul tema. E infatti anche Renzi non manca di prendersela con gli insegnanti, perché, oltre che ai genitori, bisognerebbe guardare anche alle responsabilità dei docenti: “C'è anche una parte di responsabilità che deriva dal fatto oggettivo che quando si chiedono [sic] ai ragazzi di boicottare le prove invalsi o si minaccia il blocco degli scrutini non si sta facendo un servizio alla scuola e non si sta facendo un servizio a quei ragazzi”. Fatto oggettivo, reale, non contestabile; anche se in realtà sarebbe un'opinione.
A prescindere da questo, c'è una frase di Renzi che merita di essere analizzata e che si riporta testualmente:

“Sono cinquecento euro annuali che arrivano a tutti gli insegnanti della scuola pubblica italiana con questa riforma, perché mettiamo più soldi nella scuola, non meno soldi, nonostante le proteste”.

Ammettendo la buonafede dell'oratore, si può ritenere che si tratti di una leggerezza lessicale e cioè che “nonostante le proteste” equivalga a un “a differenza di quel che dice chi protesta”. Ma la frase, così com'è pronunciata, lascia spazio a un equivoco che, sebbene (si spera) non nelle intenzioni di Renzi, è il caso di sfatare una volta per tutte: non è che si garantisce qualcosa “nonostante le proteste”, perché i diritti non sono elargizioni, favori concessi da chi comanda. È finito il tempo dello Statuto Albertino e delle costituzioni ottriate, cioè regalate dal sovrano ai sudditi. Nella repubblica democratica, se del denaro spetta agli insegnanti, questo non dipende dalla loro opinione sulla riforma (e su qualunque altro tema).

4) Autonomia

Si tratta del capitolo in cui Renzi utilizza più vocine caricaturali per screditare gli argomenti altrui senza confutarli, ma che è legato a doppio filo con l'ultima parte del punto sui soldi agli insegnanti, che dunque è meglio analizzare ora. Oltre ai cinquecento euro annuali, infatti, si afferma che il Governo stanzierà 200 milioni per la valutazione. Al di là della scorrettezza di inserire nel capitolo “soldi agli insegnanti” quello che tecnicamente si dovrebbe definire come “soldi alle scuole”, i dubbi sul tema non possono essere ridotti, come fa Renzi citando canzoni, a “nessuno mi può giudicare”. E le perplessità riguardano sia il metodo di valutazione, sia le conseguenze di essa, sintetizzate dallo stesso premier: “Dare più soldi a chi li merita”. E chi li merita? Se il Governo ritiene così importanti i test Invalsi, tanto da bollare come ‘indecente' il boicottaggio, si può supporre che proprio quello sia il metro di giudizio per il fantomatico “merito”. Ma i test, così come sono strutturati, rappresentano una forma di sapere nozionistica, e i ragazzi della scuola di Barbiana commenterebbero ancora oggi: “Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta”. Per questo, parlare di autonomia e della scuola di Scampia che ha bisogni diversi da quella del centro di Milano, è un discorso vero ma che resta lettera morta: perché la scuola che accoglie e che privilegia la cooperazione invece della competizione spesso è quella che insegna a mettere in discussione le certezze e che cerca ogni metodo per far apprendere ai ragazzi più difficili la cultura, magari proprio rifuggendo dalle nozioni. Il vero docente non riempie le teste, ma apre le menti, non insegna il metodo per dare la risposta esatta a un quiz, ma indica nuove domande. Questo, nella valutazione, non è considerato, e la scuola d'elite, in classifica, avrà un punteggio maggiore (e quindi più soldi) della scuola ghetto. Ma da che parte sta, davvero, il merito? Torna in mente ancora la cadenza fiorentina di don Lorenzo Milani e dei suoi ragazzi di Barbiana, in quello sfogo così attuale che è Lettera a una professoressa:

“Così è stato il nostro primo incontro con voi. Attraverso i ragazzi che non volete. L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile. E voi ve la sentite di fare questa parte nel mondo?”

A che serve l'autonomia, se sarà basata sulle disuguaglianze?

5) Continuità

“E qui si va sul delicato”. Renzi annuncia l'assunzione di più di centomila persone, perché non si può avere né un sistema scolastico basato sulla “supplentite”, né una generazione di precari. È necessario chiarire, però, che le assunzioni e la previsione di un organico funzionale non sono in sé una scelta del Governo, ma una (inevitabile) reazione a quella che è stata la condanna della Corte di Giustizia Europea sulla questione dei precari della scuola. In estrema sintesi, la Corte ha rimproverato allo Stato italiano di aver abusato per anni di contratti a tempo determinato, prorogandoli oltre i limiti consentiti e senza reali ragioni tecniche. L'attuale governo può decidere in che modo risolvere il problema e stabilizzare i precari, ma deve necessariamente trovare una soluzione, se non altro per evitare innumerevoli ricorsi da parte dei docenti. E, nel cercare il sistema, l'esecutivo renziano ha adottato una tecnica che rappresenta l'alibi perfetto per la riforma dell'istruzione: stabilizzare i precari è necessario (e imposto), modificare l'impianto scolastico no. Eppure, i due provvedimenti sono stati di fatto accorpati. Così, si è dapprima tentato di far passare la riforma con un decreto-legge, in maniera più veloce e senza interventi parlamentari, esaltando i requisiti di “necessità e urgenza” della stabilizzazione dei precari. Di fronte alle proteste del mondo della scuola, poi, la decretazione d'urgenza è stata accantonata, ma l'intervento sull'organico funzionale (che pure effettivamente risponderebbe ai requisiti di necessità) è rimasto legato al testo della riforma, sottoposta all'iter parlamentare. In questo modo, peraltro, il fronte della scuola si spacca, tra le richieste dei precari di essere stabilizzati in fretta e la contestazione di studenti e docenti che chiedono il ritiro del provvedimento. Un cortocircuito che si sarebbe potuto evitare tenendo distinte le due materie, ma che, a guardar bene, appare funzionale all'interesse del Governo.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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