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Opinioni

Investire in Italia? Meglio in Btp che in azioni

Il capitalismo italiano resta in mano a pochi gruppi pubblici e privati, così gli investitori internazionali trovano più interessante puntare sui titoli del nostro debito pubblico piuttosto che su partecipazioni azionarie…
A cura di Luca Spoldi
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Ho ricordato ieri come negli Stati Uniti vi siano stati casi di “bailout” (salvataggi) anche molto impegnativi, sia per l’importo complessivo delle operazioni sia per la complessità delle stesse, come nel caso di AIG, che anziché generare perdite hanno portato a plusvalenze miliardarie per i contribuenti, a differenza di quanto accaduto in Italia dove sovente lo stato ma anche banche e aziende private preferiscono “salvare” gli azionisti di maggioranza o a volta il top management piuttosto che azionisti e obbligazionisti di minoranza (e “naturalmente” men che mai i contribuenti, sulle cui spalle si scaricano spesso i costi “sociali” di tali interventi). Così non dovrebbe stupire che all’occhio degli investitori esteri il Belpaese possa rappresentare tuttora una scommessa più o meno interessante per quanto riguarda il reddito fisso, ma raramente lo sia per quanto riguarda asset azionari (salvo nei casi in cui sia possibile rilevare il controllo di qualche azienda, come si è visto coi casi di Edison, Parmalat e Ducati, la cui proprietà è ormai francese o tedesca).

Per meglio farvi comprendere come il mercato giudichi comunque interessante investire in Italia, indipendentemente da chi sarà il prossimo inquilino di Palazzo Chigi, con buona pace di chi, anche in Germania, continua a sottolineare che l’operato di Mario Monti è stato migliore di quello del suo predecessore, il proprietario del Pdl Silvio Berlusconi (che intanto sembra pronto a cambiare idea un’altra volta e a ritirarsi dalla competizione se l’attuale premier dovesse candidarsi ufficialmente, ipotesi che segue una serie di “no grazie” da parte di possibili alleati dalla Lega Nord al mondo cattolico), quasi a voler dire che senza Monti “si salvi chi può”, vi citerò alcuni report diffusi in giornata da parte delle maggiori banche d’investimento e società di gestione del risparmio internazionali.

Axa Investment Management spiega che dopo che l’incertezza politica “è ritornata al centro delle attenzioni in Italia”, dopo che il Pdl ha tolto la fiducia al governo Monti, portando ad un aumento della volatilità dei rendimenti del debito italiano e che “per effetto di contagio, ne ha risentito anche il debito del governo spagnolo”, ma che non è il caso di allarmarsi, anzi di provare ad approfittare per fare qualche buon investimento. “Nei nostri portafogli principali siamo stati neutrali sull’Italia e la Spagna fino a fine novembre, quando abbiamo deciso di incrementare l’esposizione sulla Spagna. Dopo l’ampliamento dei periferici lunedì, in seguito alle dimissioni di Monti, abbiamo deciso di incrementare l’esposizione all’Italia sui massimi relativi” aggiungono gli esperti secondo cui le “discrepanze tra le emissioni dei paesi “core” e i periferici” europei restano “notevoli”, per non dire eccessive.

Pertanto eventuali picchi negli spread e aumenti della volatilità “si possano considerare interessanti opportunità per incrementare l’esposizione sull’Italia e sulla Spagna”. Al “buy on weakness” (acquistate sulla debolezza) sul reddito fisso italiano implicito nell’analisi della casa d’investimento francese fa da contraltare una molto maggiore prudenza da parte di Morgan Stanley come pure di Credit Suisse per quanto riguarda i titoli azionari di alcuni tra i maggiori detentori di titoli pubblici tricolori, le banche italiane. Morgan Stanley suggerisce infatti, parlando di banche europee, di focalizzarsi “su poche banche “economiche” con forti utili nelle loro attività “core”, essendo cresciuta la probabilità che possano accelerare la ristrutturazione e tornare al dividendo”. I titoli preferiti dagli esperti americani sono pertanto Ubs, Barclays, Bnp Paribas, Kbc, Swedbank, Sberbank e Aberdeen, mentre i “meno preferiti” restano Banco Popular, Commerzbank, Icap, Banco Sabadell e le italiane Bpm e Mps.

Cambiano i nomi ma non cambia la sostanza  nel caso delle raccomandazioni contenute nell’equity outlook 2013 del Credit Suisse: Mps e Ubi Banca, assieme al Banco Sabadell, continuano secondo gli esperti a soffrire di un business model “vulnerabile”;  in uno scenario bancario europeo dove il deleveraging “non è concluso” (ipotesi su cui concordo da tempo) gli investitori nei prossimi mesi torneranno a focalizzare l’attenzione sul ritorno sul capitale e sui risultati delle ristrutturazioni avviate. Tuttavia vi sarebbe secondo gli esperti spazio per una revisione al rialzo degli utili attesi, nel caso di una maggiore fiducia dei mercati nei confronti dell’Eurozona. Tra i titoli preferiti del settore gli uomini di Credit Suisse citano Hsbc, Banco Santander e Ubs, mentre non menzionano alcun istituto italiano.

Se non è della crisi politica italiana che hanno paura gli investitori, da cosa dipende il maggior favore accordato ai nostri Btp rispetto alle azioni delle maggiori aziende tricolori? Forse dall’arretratezza e chiusura del nostro capitalismo, a cui ho più volte accennato e che per ora le parziali riforme varate dal governo Monti non hanno scalfitto più di tanto. Del resto,  nota in un’analisi ripresa nell’ultimo numero di Via Sarfatti 25 lo storico d’impresa Andrea Colli, se negli ultimi 20 anni si sono avuti “grandi rivolgimenti” dello scenario economico europeo e italiano, “poco si vedono guardando gli assetti delle nostre aziende”. Nel 1992 dei primi 50 gruppi industriali, ricorda Colli, 19 erano sotto controllo pubblico e altre 12 rappresentavano “il mondo privato del capitalismo italiano” fatto di aziende “storiche” come Fiat, La Rinascente, Olivetti, o più recenti come Benetton, Luxottica, Ferrero, Esselunga e la galassia Publitalia-Mediaset.

“Ebbene, se si guardano i dati 2012, la situazione è cambiata poco”: le imprese pubbliche son scese a 11, con lo stato che si è ritirato “dai settori maturi della seconda rivoluzione industriale, come l’acciaio, ma è rimasto strategicamente presente nell’aerospaziale (Finmeccanica) e nell’energia (Eni)”, mentre i gruppi privati “hanno  mantenuto la loro tradizionale divisione tra pochi pionieri come Fiat (Exor) Italmobiliare (Pesenti) e una Pirelli profondamente mutata, mentre risalgono prepotentemente la classifica quelli che sono oggi i nuovi grandi gruppi privati (Riva, Esselunga, Benetton, Luxottica, Marcegaglia, De Agostini e altri)”. E gli assetti proprietari? “Dopo vent’anni di grandi rivolgimenti, sembra che ben poco sia cambiato, almeno sotto il profilo strutturale della proprietà e del controllo del grande capitalismo italiano” conclude Colli. Se aggiungete che molte “facce nuove” sono in realtà seconde o terze generazioni e che le imprese italiane pubbliche e soprattutto private continuano a soffrire di una carenza di capitali rispetto a molti loro competitor mondiali, è forse più chiaro perché dell’Italia agli investitori stranieri continui a piacere più il debito, che paga interessi relativamente alti, che non le partecipazioni azionarie, dove ad essere azionisti di minoranza non c’è quasi mai nulla da guadagnare, indipendentemente dall’andamento dello spread.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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