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Giornata nerissima per i mercati, l’euro va rottamato?

Giornata nerissima per i mercati finanziari a causa di una serie di notizie negative. In tanti danno la colpa all’euro: vediamo se e quanto hanno ragione in attesa che il governo vari nuove riforme.
A cura di Luca Spoldi
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borse in negativo

Il probabile fallimento delle trattative bipartisan per un taglio del budget da parte del Congresso statunitense, il possibile downgrade del rating sovrano della Francia e l’allarme giunto dalla Cina circa la possibile recessione che il mondo pare avviato nuovamente a dover affrontare fanno sprofondare in rosso i listini europei, Piazza Affari compresa, su cui continua a pesare il no tedesco a ogni ipotesi di accordo su un ruolo di prestatore di ultima istanza da parte della Bce.

Scivoloni pericolosi non solo perché rischiano di aprire nuovi buchi nei bilanci delle banche e degli stati, già impegnati allo spasimo a cercare di “delevereggiare” il proprio debito (le prime preparandosi a fare cassa con la vendita, non si sa bene a che prezzo, di centinaia di miliardi di euro di asset “a rischio” non più “strategici” che sembrano fare gola ai maggiori fondi di private equity mondiali, i secondi continuamente allo studio di nuove manovre “correttive” potenzialmente in grado di incidere in senso ulteriormente negativo sulla crescita a breve), ma anche perché si prestano a un’interpretazione “ideologica” da parte di chi l’euro non lo ha mai tollerato come idea né ha mai accettato i mercati come giudice.

Per capire se e quanto abbiano ragione vale la pena di ricordare alcuni dati. Primo, in epoca pre-euro (2001) il Pil italiano era pari a circa 1.250 miliardi (di euro, appunto) contro i circa 1.550 raggiunti a fine 2010 (dati Ocse), segnando una crescita lorda complessiva del 24%. Nello stesso periodo la Francia è passata da 1.495 miliardi a 1.932 miliardi di euro di Pil (+29%), la Germania da 2.000 miliardi tondi a 2.476 miliardi (+23,8%), la Gran Bretagna (che nell’euro non è mai entrata) da poco più di 928 miliardi a 1.455 miliardi (quasi +57%). Il che sembra indicare che il problema italiano è legato a un’economia che cresce troppo lentamente (sia per ripagare il debito, ormai arrivato a un insostenibile rapporto di 1,2 volte il Pil, sia per tenere il passo coi principali concorrenti anche solo europei), ma che il tanto lodato “modello tedesco” non è affatto riuscito a fare meglio e che per ora la Gran Bretagna bene ha fatto a non entrare nella zona euro, tuttora troppo burocratizzata e priva di quell’unità fiscale e politica che sempre più sembra la condizione necessaria per evitare che tutto vada in frantumi con dolorose conseguenze per i più deboli (sia come stati sia come classi sociali all’interno di ciascuno stato).

Secondo: le banche italiane erano sinora riuscite a evitare i guai in cui sono incorse le loro dirette concorrenti americane ed europee non per proprio merito ma per demerito dei concorrenti, che negli anni avevano adottato e spinto molto più degli istituti italiani il modello della banca universale (già fallito a più riprese nel corso del Novecento e tuttora rivelatosi drammaticamente fragile) e la leva finanziaria, ossia il “leverage”, dato dal rapporto (debito + capitale di rischio)/capitale di rischio. Leverage che a sua volta, come dimostrarono già alla fine degli anni Cinquanta i Nobel per l’Economia Modigliani e Miller può avere un effetto positivo sul Roe, ossia sulla redditività del capitale, a patto di investire in modo oculato così che il Roi, rendimento del capitale investito, superi il costo dell’indebitamento, in caso contrario la  leva finanziaria svolge la sua funzione con altrettanta efficacia, ma in senso distruttivo.

Le banche italiane hanno a lungo esitato dal ritornare al modello universale così come dall’utilizzare elevati gradi di leverage (ossia indebitarsi in misura massiccia)  perché culturalmente arretrate dopo decennio di colonizzazione dei vertici aziendali da parte della politica, quella stessa politica che approfittando degli errori del management sta da tempo tentando di tornare nella “stanza dei bottoni” dichiarandosi paladina degli interessi territoriali e popolari. C’è da sperare che il disegno non riesca, non perché tecnici e banchieri siano perfetti (basterebbe vedere quali progetti sono stati copiosamente finanziati dalle varie banche “di sistema” italiane e quali ristrutturazioni del debito siano state annunciate in questi ultimi due anni e mezzo anche solo tra le grandi imprese quotate a Piazza Affari per capire come sicuramente si sarebbe potuto gestire meglio il denaro affidato alle banche dai propri correntisti) o santi (non solo per gli eventuali interessi privati dei singoli banchieri e per le maxi-liquidazioni che alcuni di loro sono stati in grado di ottenere al di là del valore per gli azionisti creato o più spesso distrutto, quanto per l’inveterata abitudine di recuperare le sofferenze sui crediti mal erogati attraverso generalizzati aumenti dei costi e progressive restrizioni del credito, che vanno ai danni di tutti coloro, famiglie e imprese, che non hanno mai causato problemi e si trovano a dover indirettamente pagare per le malefatte altrui), ma perché il rimedio, come testimoniano decenni di “spese allegre” dello stato e delle sua aziende (ma spesso anche di grandi aziende private) sovvenzionate dal sistema bancario italiano, rischierebbe di essere peggiore del male che si vuole curare.

Dobbiamo dunque fortemente sperare che Mario Monti e i suoi ministri, compreso l’ex numero uno di Intesa Sanpaolo (e ancora prima in McKinsy, nel gruppo Cir di Carlo De Benedetti e in Poste Italiane), Corrado Passera, neo ministro dello Sviluppo economico e delle infrastrutture, svolgano al meglio il proprio compito, varando norme utili a far cassa ma soprattutto a far ripartire la crescita e a garantire maggiore equità. Come fare? Non spetta a me suggerirlo né ad altri 60 milioni di potenziali premier che in queste ore discutono ai bar della manovra “ventura”; certo l’esempio irlandese pare per ora il più funzionale tra quelli degli stati che hanno attraversato loro malgrado una crisi del debito sovrano in questi mesi. Dublino, per inciso, ha deciso di alzare l’Iva e aumentare le tasse indirette, tenendo ferme quelle sul reddito e sulle imprese così da non far fuggire gli investitori e non rischiare un ulteriore aggravio della disoccupazione. E’ una ricetta che Monti potrebbe seguire (si parla di un nuovo innalzamento dal 21% al 22% o anche al 23% dell’Iva, sperabilmente dopo la stagione natalizia così da dare un minimo di respiro al settore della distribuzione al dettaglio, ma anche di patrimoniali in varie forme, la più probabile delle quali pare la reintroduzione dell’Ici sulla prima casa).

Non lo dice nessuno ma uno degli elementi per centrare le famose condizioni poste dalla Ue (e dai mercati, al netto delle attuali vendite effettuate da banche europee e americane che comunque proseguiranno per qualche settimana anche se dovessero essere annunciate misure rivoluzionarie domani stesso) è la crescita nominale, non reale, del Pil. Il che significa che una “tassa indiretta” potrebbe essere l’inflazione, che di fatto è una patrimoniale strisciante e che però serve allo scopo se si riesce a tenerla sotto controllo (lo stesso Mario Draghi, ora ai vertici della Bce, sembra piuttosto temere per l’economia europea, la “morte bianca” della deflazione, più che “l’inferno” dell’inflazione). A parità di altri fattori aumentando l’Iva per inciso si “rischia” di mantenere attorno o poco sopra il 3% annuo (stante il parallelo e continuo taglio dei costi e dell’indebitamento da parte delle imprese) la crescita dei prezzi: quanto basta anche a fronte di una crescita reale pressochè nulla per non fare troppa brutta figura, a patto che la manovra oltre che seria sia equa, ossia colpisca gli evasori e non si ripercuota sui soliti (e tartassati) noti.

Anche in questo senso la misura che potrebbe rendere obbligatorio l’uso di bancomat e carte di credito per pagamenti sopra una soglia minima (500 o 350 euro) potrebbe servire allo scopo (secondo stime Abi farebbe emergere un “nero” attorno ai 40 miliardi di euro l’anno e dunque genererebbe mediamente una quindicina di miliardi di euro di nuove entrate fiscali) se sarà accompagnata da un drastico calo delle commissioni che tuttora le banche italiane guadagnano su tali transazioni (superiori alla media europea). Come tutti gli strumenti in potenza la manovra che il governo Monti sembra avere allo studio potrebbe servire egregiamente allo scopo, o fallirlo clamorosamente. Molto dipenderà dagli spazi di manovra che la politica lascerà ai “professori”, ancora di più da un cambiamento culturale degli italiani, per troppo tempo sembrati complici di politici e imprenditori dai pochi scrupoli e dai molti intrallazzi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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