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Fossimo falliti e nessuno ce l’ha detto?

Ancora una giornata pesante per i titoli bancari del veccio continente. Pesano i timori che la crisi economica nel Sud Europa sia più ampia del previsto e induca nuove misure correttive, rischiando di peggiorare la situazione.
A cura di Luca Spoldi
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Mario Monti, Corrado Passera

I mercati non si fidano, le banche neanche e persino io non son così sereno. Non so a voi ma a me che per lavoro debbo scrivere ogni giorno di finanza e di mercati, leggere bilanci, riclassificare conti e cercare di capire cosa di buono e di meno buono i palazzi della politica italiani ed europei, le grandi banche, le grandi imprese, vanno preparando per il loro e il nostro futuro, ogni tanto prende un vago senso di sconforto. Sconforto perché nonostante sia evidente a tutti (e tutti ne sembrano consapevoli almeno a giudicare dalle ultime dichiarazioni, ad esempio, del ministro dello Sviluppo, Corrado Passera), quando arrivano i dati macro si ha la conferma che chi deve prendere decisioni vitali per il rilancio dell’economia di questo paese e di questo continente semplicemente non sa che pesci pigliare, o forse lo sa troppo bene. Così anche oggi, nonostante Passera dichiari che per il governo italiano la priorità è la  crescita e non ulteriori misure di austerity come invece sostiene il Financial Times, che peraltro non decide di punto in bianco di sostenere un “gossip” più o meno sensato o vantaggioso per questo o quell’intermediario finanziario (come puntualmente rischiano di fare giornali e siti economici italiani quando seguono i “retroscena” delle principali operazioni di mercato, da Fondiaria-Sai a UniCredit, da Mediobanca a Generali, da Fiat a Impregilo: sempre gli stessi nomi se fate caso e non è una coincidenza ma l’ennesimo segnale della chiusura e dell’arretratezza del sistema italiano), ma si limita a riportare quanto contenuto in una bozza di documento (un “rapporto sullo stato del bilancio in Italia”) che era sul tavolo dell’ultimo Eurogruppo svoltosi a Copenhagen la scorsa settimana, nonostante questo dicevo i mercati non si sono fidati e dopo l’ennesimo dato disastroso stavolta proveniente dalla Spagna (dove al momento vi sono 4,75 milioni di persone in cerca di lavoro, ossia il 24,12% della popolazione attiva, la metà dei quali giovani) hanno perso rapidamente terreno, con Piazza Affari che ha lasciato sul terreno un paio di punti percentuali mentre il rendimento sul Btp decennale guida è risalito al 5,155% (5 punti base più di ieri) e lo spread sul Bund di pari scadenza al 3,35% (dal 3,30% di ieri sera). A perdere maggiormente terreno sono stati ancora una volta titoli del comparto bancario come Banco Popolare, Bpm (il cui rating è stato messo sotto creditwatch con implicazioni negative da Standard & Poor’s), UniCredit, per la cui presidenza non c’è ancora accordo tra i soci, Intesa Sanpaolo, già ieri in calo nonostante il consiglio di “buy” (“acquistare”) reiterato da Goldman Sachs, e Bper, che ha annunciato stamane di aver trovato un’intesa con Fondazione Cr Bra per rilevare il controllo del piccolo istituto piemontese (il che in un mondo di acquisizioni da miliardi di dollari sembra una storia da piccolo mondo antico).

Di che hanno paura i mercati? A chi opera sui mercati finanziari e si confronta ogni giorno con dati macroeconomici, indicatori previsivi e bilanci aziendali non sfugge infatti che se gli investitori internazionali, intimoriti da un rallentamento che sta puntualmente dimostrandosi superiore alle ottimistiche previsioni formulate ufficialmente da Ue, Bce e Fmi (la “troika” che ha già strozzato l’economia greca e portoghese in cambio della concessione di aiuti che rischiano ancora di non bastare, nonostante tutto), dovessero tornare a vendere titoli governativi europei riacquistati a piene mani dallo scorso novembre fino a fine marzo, sarebbero proprio le banche del vecchio continente a finire nuovamente nell’occhio del ciclone dovendo a loro volta disfarsi rapidamente dei titoli sottoscritti grazie alla liquidità copiosamente erogata dalla Bce ma non immessa nell’economia reale e utilizzata solo, finora, per operazioni di carry trade. Con in più il concreto rischio che le richieste di ricapitalizzazione avanzate dall’Eba (e che le banche italiane sperano possano essere mitigate dal restringimento degli spread sul debito sovrano osservato nel primo trimestre dell’anno) non solo vengano confermate ma finiscano col richiedere nuovi interventi nazionali nel caso che i soci privati non vogliano o non possano mettere mano e ciò nonostante l’esigenza di salvaguardare “interessi nazionali” suggerisca di non far spazio a nuovi investitori esteri. A quel punto chi dovrebbe finanziare i nuovi aiuti alle banche, indovinate? Gli stessi soggetti su cui già stanno per abbattersi un profluvio di aumenti di imposte, accise e tariffe di beni e servizi nei prossimi mesi: i contribuenti (visto che nonostante i proclami di rinnovata lotta all’evasione riuscire a recuperare il “nero” e le relative imposte richiede comunque tempi lunghi e non solo pochi mesi). Il che rischia di deprimere ulteriormente i consumi e gli investimenti e pertanto il Pil, innescando un pericoloso avvitamento.

Fossimo falliti e non ce l'hanno detto? Le misure finora emerse, fatte più di aumenti di imposte che di tagli di spesa e quei pochi tagli fatti in modo lineare e non proporzionale, sono al tempo stesso inique (perché non migliorano l’equità fiscale) e depressive (perché hanno un marcato effetto pro-ciclico proprio in una fase di rallentamento economico); certo tagliere le spese significa spesso tagliare privilegi e rendite e si è visto quanto questo sia difficile in Italia con la vicenda delle “liberalizzazioni”, per cui dovendo quadrare i conti per evitare il “rischio Grecia” era probabilmente inevitabile che il premier Mario Monti agisse come ha agito. Ora però si continua a dire di voler promuovere la crescita, ma non si offre alcuna chiara politica economica per il futuro (quali sono le infrastrutture realmente irrinunciabili e quali finiranno col foraggiare solo i “soliti amici” che guadagneranno dall’incremento dei costi di opere di dubbia utilità? Quali strumenti si metteranno in atto per incentivare la formazione e l’aggiornamento professionale, la ricerca e sviluppo, la diffusione dell’innovazione?) col rischio di “dover” comunque introdurre nuovi tagli e prelievi fiscali. Il perché dovrebbe essere chiaro: sinché nella Ue le sole metriche (peraltro disattese in anni passati da paesi “virtuosi” come Francia e Germania) saranno quelle del patto di (in)stabilità, ossia i rapporti deficit/Pil e debito/Pil, ogni volta che il Pil cresce meno degli interessi sul debito i due rapporti tendono a peggiorare, inducendo a nuove manovre “correttive”. Di correzione in correzione se non si agisce sulla spesa ma solo sulle imposte il reddito disponibile dei contribuenti si riduce, inducendo meno consumi e meno investimenti e quindi frenando il Pil e rischiando di scompensare ancora di più il rapporto. Nel caso dell’Italia, che paga oltre il 5% di interesse sui suoi titoli di stato decennali, la crescita prevista quest’anno è negativa dell’1,3%-1,7% a seconda delle fonti, mentre l’anno prossimo dovrebbe essere attorno allo zero e nel 2014 attorno o poco sopra il mezzo punto percentuale di crescita. Se anche gli interessi sul debito pubblico crollassero vicino a zero (a livelli di Bund e T-bond semestrali, il che è impossibile ovviamente) prima di un paio d’anni i rapporti debito/Pil e deficit/Pil non migliorerebbero, salvo un balzo delle entrate fiscali che in assenza di crescita sarebbe comunque insostenibile a medio termine. Visto che a quel punto guadagneremmo di meno in termini reali, rischieremmo di perdere più facilmente il lavoro, pagheremmo circa il doppio di tasse sulle nostre abitazioni (mentre sembra che le "povere" Fondazioni bancarie eviteranno la stangata, come la Chiesa), viene un sospetto: fossimo falliti e non ce l’avessero detto ed ora stessimo assistendo ad un gigantesco pignoramento per soddisfare i creditori? E la colpa di chi sarebbe, dell’ufficiale giudiziario (Mario Monti?) che ora ci porta la notifica, dei creditori (Angela Merkel?) o di chi ci ha guidati lietamente nel fallimento (i governi degli ultimi 20 anni almeno)? E come se ne esce se non rilanciando la crescita e tagliando le spese superflue rilanciando gli investimenti produttivi? Pensieri che come detto mi provocano ogni tanto un senso di sconforto, da cui mi riprendo solo guardando in faccia mio figlio e sapendo che non ci si può arrendere, nonostante tutto e tutti (ma cambiare si deve e si può).

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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