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“Uno o due voli e poi smetto”: la frase del comandante che riaccende i sospetti sul disastro Air India

Tre settimane dopo lo schianto del Boeing 787 (oltre duecentocinquanta persone morte) l’indagine si concentra sui piloti. Le parole del comandante Sabharwal, che aveva annunciato di voler smettere dopo uno o due voli, alimentano dubbi su un possibile gesto deliberato.
A cura di Biagio Chiariello
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"Uno o due voli e poi smetto". Così aveva detto il comandante Sumeet Sabharwal a una vicina di casa, pochi giorni prima della tragedia. Voleva tornare a casa, prendersi cura di suo padre novantaduenne, chiudere con quella vita sospesa tra le nuvole. Un pensiero che sembrava dettato dalla stanchezza, forse da una nostalgia mai sopita. Oggi, però, quelle parole assumono un peso diverso. Perché dopo lo schianto del Boeing 787 di Air India, avvenuto tre settimane fa, gli investigatori hanno deciso di andare oltre l’esame dell’aereo e dei suoi motori. E di concentrarsi proprio su di lui, sul comandante Sabharwal, e sul primo ufficiale Clive Kunder.

Una svolta che, scrive il Corriere della Sera citando fonti occidentali vicine all’indagine, è stata presa con riluttanza dalle autorità locali. Ma che è diventata inevitabile dopo un incontro riservato, il 16 giugno, tra alti dirigenti di Boeing e GE Aerospace. In quell’occasione, le due aziende hanno presentato dati che indicavano una "criticità" avvenuta nella cabina di pilotaggio. Così, l’attenzione si è spostata sulle vite di chi era ai comandi.

Chi era il comandante Sumeet Sabharwal

Sumeet Sabharwal, 56 anni, era un veterano del volo: 15.638 ore di esperienza, di cui 8.596 proprio sul Boeing 787. La sua licenza di pilota di linea era valida fino al 2026 e poteva comandare anche Boeing 777 e Airbus A310. Una carriera costruita con disciplina, che nulla lasciava presagire. Eppure aveva fatto quella telefonata a casa: "Vi richiamo dopo l’atterraggio a Londra", aveva detto ai familiari. Ma la chiamata non arrivò mai.

Il suo copilota, Clive Kunder, aveva solo 32 anni e un’esperienza assai più ridotta: poco più di 3.400 ore di volo, di cui 1.128 sul Boeing 787. La sua licenza da pilota commerciale risaliva al 2020. Era entrato in Air India nel 2017, ma volava già dal 2012. Per lui, il volo era una passione coltivata fin da ragazzo, raccontano i familiari.

Il 12 giugno, giorno dell’incidente, l’equipaggio del volo AI171 aveva superato senza problemi il test dell’alcol, una verifica di routine. Eppure, oggi gli inquirenti scavano più a fondo nelle loro vite. Anche perché c’è un particolare che inquieta gli esperti: nel Boeing 787, i due interruttori che regolano il flusso di carburante ai motori si trovano in basso nella console centrale. "Non ci si finisce per errore con le mani o le braccia", ha spiegato al Corriere un comandante con oltre vent’anni di esperienza sui 777 e 787. E allora, di fronte a questo scenario, restano due ipotesi: un guasto straordinario o un gesto intenzionale.

Le critiche sulle indagini per il disastro di Air India

L’Associazione dei piloti di linea dell’India ha criticato la direzione dell’indagine, accusando le autorità di avere "un pregiudizio verso l’errore umano" e di condurre un’inchiesta poco trasparente, senza coinvolgere piloti esperti ancora in attività.

A pesare, su tutto, è la lunga ombra delle ombre dell’aviazione indiana. Nel 2011, la Direzione generale dell’aviazione civile stimava che nel Paese ci fossero fino a quattromila piloti con documenti falsi. Un’emergenza che aveva spinto a rafforzare i controlli, ma che non ha del tutto risolto il problema: bastavano appena 35 minuti di addestramento per ottenere certificazioni che attestavano 360 ore in cabina. La scarsa digitalizzazione, con la documentazione su carta facilmente alterabile, aveva fatto il resto.

E così quelle parole di Sabharwal, sussurrate quasi come un commiato, oggi sembrano il preludio di un mistero che ancora cerca risposte: "Uno o due voli e poi smetto".

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