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Perché i giovani ungheresi pro Lgbt+ stanno facendo vacillare il potere di Viktor Orban

Sabato il centro di Budapest è stato invaso da decine di migliaia di persone per il Pride, secondo le stime più di 30mila, quasi il doppio rispetto all’ultima parata in difesa dei diritti delle persone lgbtqi+. Il momento è stato a suo modo storico, a pochi giorni dall’entrata in vigore della discussa legge voluta dal partito di Viktor Orbán che l’Unione europea ha definito come discriminatoria.
A cura di Redazione
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di Mattia Fonzi

Un fiume di persone e di colori, sotto il cielo d’oriente. È in un giorno caldo di fine luglio che l’Ungheria dice no alle leggi discriminatorie del governo di Viktor Orbán e sì a un Paese più aperto, inclusivo e unito. Sabato 24 luglio il centro di Budapest è stato invaso da decine di migliaia di persone per il Pride, secondo le stime più di 30mila, quasi il doppio rispetto all’ultima parata in difesa dei diritti delle persone lgbtqi+. Il momento è stato a suo modo storico, a pochi giorni dall’entrata in vigore della legge che vieta la rappresentazione di temi lgbt ai bambini, con enormi implicazioni nell’arte, nella cultura e soprattutto nella formazione scolastica dei giovani.

Si temevano momenti di tensione con gruppi dell’estrema destra, che avevano organizzato contro-presidi proprio sul lungo percorso della manifestazione, ma a parte qualche provocazione non si è assistito ai disordini. Imponenti le forze di polizie messe in campo dal governo, che non può permettersi un ulteriore innalzamento della tensione, dopo quelle dei giorni scorsi con le istituzioni europee.

Stavolta, infatti, la Commissione europea non è rimasta a guardare di fronte l’ennesima forzatura di Orbán. Le parole dure di Ursula Von der Leyen e l’avvio delle procedure d’infrazione nei confronti dell’Ungheria ne sono la dimostrazione. Così migliaia di ungheresi, quasi tutti giovanissimi, hanno sfilato sotto il cielo terso di Budapest indisturbati, o quasi. Perché all’avvio del corteo alcuni esponenti del neofascismo magiaro hanno tentato di raggiungere la manifestazione ma sono stati bloccati dalla polizia. E perché prima e dopo il Ponte della Libertà due presidi sparuti dei sovranisti di “Nuova patria”, tenuti a debita distanza, hanno scatenato i fischi e persino l’ironia della marea colorata pride. Da un lato, infatti, una cinquantina di persone urlava «vietamolo», dall’altro si replicava con «l’amore è un diritto umano». Un botta e risposta durato fino a quando i sovranisti sono stati addirittura blastati. «Ria, ria, Ungheria» era il tifo da stadio che continuavano a intonare. «Ria, ria, Ungheria» hanno risposto più forte i manifestanti, in un ribaltamento di senso che ha generato persino ilarità. Urlando a gran voce che i primi a tenere alla comunità nazionale sono i proprio giovani del Pride.  Il senso della piazza è tutto in quello scambio surreale.

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A sorpresa, mercoledì scorso Orban ha annunciato in diretta Facebook un referendum, da tenersi nel prossimo inverno – prima delle elezioni politiche della primavera 2022 – sulla discussa legge. Un modo per il leader ungherese di legittimare le decisioni del governo, fare campagna elettorale e contrapporre strumentalmente la sovranità popolare alla “burocrazia di Bruxelles”. La verità è che Orban, chiuso in un angolo, non si aspettava stavolta una reazione tanto convinta quanto incisiva della governance europea. E così attraverso la strategia referendaria spera ancora di surfare su un Paese diviso in due.

L’attacco ai diritti civili è tutto politico, strumentale al consenso politico del premier e del suo partito Fidesz. Nell’ottica di un bisogno ossessivo di creare sempre nemici esterni. George Soros è ormai anziano, i flussi migratori sulla rotta balcanica sono calati. Così è necessario calcare la mano sui diritti civili, per dimostrare che, al di là del tema sull’identità di genere, è in fondo la “burocrazia europea” il nuovo nemico della patria, brandendo il paradigma di una sovranità che guarda da tempo ai modelli russo e turco. In questo senso nasce l’idea del referendum, che avrà quesiti posti volutamente male (il quarto, ad esempio, recita «Siete d’accordo nel mostrare ai minori, senza alcuna restrizione, contenuti di natura sessuale che possono influenzarne lo sviluppo?»). Se sarà moderatamente sconfitto potrà comunque raccontare all’Europa della compiuta democrazia ungherese. Se ne uscirà vittorioso, sarà un bel traino per le elezioni politiche, continuando al tempo stesso la contrapposizione tra la sovranità popolare e i burocrati nemici della patria.

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La realtà, tuttavia, è spesso fuori dai recinti del politichese. La nuova legge, che impedisce di fatto l’educazione sessuale nelle scuole deputandola solo all’ambito familiare, per molti può generare effetti devastanti nel medio periodo, come l’impossibilità da parte dei psicologi di riuscire a lavorare degnamente nelle scuole sui più giovani, in un Paese che ha uno dei più alti tassi di suicidio nel mondo. Si sbaglia, però, se si pensa che tutta la vicenda riguardi solo attivisti e neofascisti, governo e opposizione. È parte di una lacerazione netta della società ungherese, che come in altre zone dell’occidente vive la contrapposizione tra le aree metropolitane e le zone rurali: «Budapest è l’unica grande città del Paese, aperta e multiculturale. Ma la campagna racconta un’altra storia, sono lì le roccaforti di Fidesz», racconta Aron Coceancig, italo-ungherese e direttore del portale di informazione in lingua italiana Ungheria News.

«L’Ungheria è pervasa dalla campagna propagandistica governativa – evidenzia Coceancig – negli anni Novanta era una delle nazioni con maggiore libertà d’informazione in Europa, oggi la maggior parte degli organi di stampa pubblica costantemente campagne d’odio con l’obiettivo di targetizzare parti della società, farne un obiettivo e criminalizzarle, in modo da mobilitare l’elettorato conservatore e nazionalista». E il controllo sottile dell’informazione è un elemento decisivo per i cambiamenti registrati dalla società ungherese negli ultimi anni, soprattutto nelle piccole città dove le persone sono ancora molto legate alla televisione, alla radio di stato, e soprattutto «ai quotidiani locali, tutti nelle mani di oligarchi vicini a Fidesz». La popolazione, insomma, ha subito anni di campagne d’odio, assorbendole.

Per questo una massiccia manifestazione sotto il cielo di luglio non può che far bene, riportando per la strada istanze reali e contrapponendo l’inclusione alla chiusura. In una società che, a causa ma anche al di là di Viktor Orbán, deve riuscire a ricostruirsi.

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