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Draghi prova a spegnere la crisi banco-sovrana

Mario Draghi, aiutaci tu: mentre si avvicina l’appuntamento con gli stress test europei sulla qualità degli asset bancari, il presidente della Bce scrive alla Commissione Ue chiedendo di non applicare la regola del “bail-in” preventivo in caso di aiuti di stato come capitato a Cipro. Speriamo ci riesca o per molte banche italiane (e per le aziende loro debitrici) rischiano di essere guai seri.
A cura di Luca Spoldi
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Antefatto: il 30 luglio scorso, secondo quanto riporta la stampa europea, il presidente della Bce, Mario Draghi, avrebbe indirizzato una lettera al Commissario europeo alla Concorrenza, Joaquin Almunia chiedendo che in occasione dei prossimi stress test sulle banche dell’eurozona (di cui vi ho già parlato e che per le banche italiane rischiano di rivelarsi piuttosto ostici nonostante l’ottimismo di facciata) si faccia chiarezza delle regole Ue così che le singole autorità nazionali possano attivare meccanismi di rafforzamento patrimoniale tramite i quali banche “tecnicamente solvibili” (tenete a mente che se una banca non è tecnicamente solvibile non può accedere ai finanziamenti della Bce) siano in grado di far fronte ad eventuali necessità di capitale, il tutto senza spaventare gli investitori.

In una parola Draghi chiede che la Commissione Ue dia il suo benestare, eventualmente, ad aiuti di stato (sotto forma di capitali o garanzie è ancora da definire) che non debbano necessariamente prevedere, come invece sembrerebbe volere la Commissione Ue su pressione della Germania, il preventivo “bail-in”, ossia il coinvolgimento forzoso degli obbligazionisti come già avvenuto nel caso del “salvataggio” di Cipro. Se le richieste di Draghi venissero accolte, come è auspicabile e possibile secondo molti analisti tra cui gli uomini di Websim (secondo cui la Ue potrebbe “aprire ad un rinvio dei meccanismi di salvataggio, per tener conto dell’eccezionalità degli aggiustamenti sulla qualità dell’attivo prevista degli stress test”), quelle banche che risultassero avere ulteriori necessità di rafforzamento patrimoniale (ovvero di aumenti di capitale) non si troverebbero automaticamente a cadere in uno stato di insolvenza e non vedrebbero l’adozione di un “pilota automatico” pericoloso come le clausole di “bail-in”.

Clausola che in astratto potrebbe avere effetti positivi (se non altro per cercare di ripartire meglio l’onere di salvataggi non facendoli ricadere solo su azionisti e dipendenti bancari o sui contribuenti europei), ma che in questo momento rischierebbero, come riocorda Draghi, di vanificare gli sforzi fin qui fatti per ristabilire un minimo di fiducia dei mercati nei confronti delle banche (in particolare del Sud Europa). Ma perché la fiducia si incrinerebbe? Perché soprattutto le banche italiane (ma non solo loro) hanno tuttora molta difficoltà a restituire i capitali prestati dalla Bce per risolvere la crisi di liquidità del 2011-2012 che aveva reso totalmente inefficiente il mercato dei capitali (in pratica le banche avevano completamente cessato di prestarsi soldi l’una con l’altra non fidandosi più), col rischio di un avvitamento mortale della crisi banco-sovrana europea che vede da un lato gli stati impegnati nel tentativo (per lo più vano) di ridurre la spesa pubblica e ricondurre il debito sotto controllo, dall’altra gli istituti creditizi impegnati a cercare di riequilibrare rapporti prestiti/depositi da tempo fortemente squilibrati.

Il tutto è avvenuto nel bel mezzo di una recessione che la “cura tedesca” somministrata a colpi di repressione fiscale ha finito col peggiorare drasticamente come sanno migliaia di piccole e medie imprese italiane (e greche e spagnole e portoghesi). Comprando tempo con potenti iniezioni di liquidità finora la Bce, al pari della Federal Reserve o della Bank of Japan (che si trovano alle prese con rapporti debito/Pil persino più squilibrati di quello, già critico, dell’Italia), ha evitato il collasso, ma prima o poi la liquidità andrà restituita e gli stress test del prossimo anno servono sostanzialmente a capire chi è in grado di farlo e chi no, perché ha in cassa una massa di “asset a rischio” ancora troppo alta. Ma siccome vendere o svalutare gli asset a rischio richiede tempo forzare troppo la mano sull’interpretazione delle regole del gioco rischia di mettere al tappeto le banche più esposte, da un lato, alla recessione economica, dall’altro ancora fortemente dipendenti dai capitali iniettati dalla stessa Bce.

Chi rischia? Certamente Bank of Ireland, Bankia, Commerzbank o Mps (che ha rimborsato finora 1 miliardo di prestiti Bce ma deve rimborsarne altri 28 più i “Monti bond”), ma anche grandi nomi come Deutsche Bank (10 miliardi ottenuti con la prima Ltro che verranno restituiti “alla prima occasione utile”, che però non si sa quando sarà). Guardando solo all’Italia, dei 234 miliardi che ancora le banche tricolori debbono restituire a Draghi (circa l’80% di quanto ricevuto) entro il febbraio 2015, salvo che non ci sia come molti prevedono una terza Ltro, 24,1 miliardi fanno capo ad UniCredit, che pure ne ha già restituiti un paio, mentre Intesa Sanpaolo, pur avendo restituito 12 miliardi ne deve ancora altri 24 miliardi, Bpm dopo averne rimborsato 1,5 ne deve ancora 4,6, il Credem, che ha già rimborsato circa mezzo miliardo grazie al collocamento di un bond a sette anni, deve ancora 4,5 miliardi (ma starebbe valutando se tornare sul mercato entro fine anno con un altro bond da 500 milioni ma scadenza più corta, sui 3-5 anni per ridurre ulteriormente la sua esposizione) e via di questo passo.

Chi ha provato ad andare sul mercato ha dovuto limitare il proprio funding e pagare ancora spread non proprio lievi: Banca Carige, che come noto dovrebbe aumentare il capitale di 600-800 milioni (ma al momento sembra nono trovare soggetti in grado di assicurare il successo dell’operazione, anche se si è parlato di un interesse del gruppo Malacalza o di Unipol), è tornata sul mercato la scorsa settimana con un’emissione da 750 milioni di euro a cinque anni con cedola pari al 3,875% (che con un prezzo di reoffer pari a 99,466 è risultato pari a poco meno del 4% lordo al collocamento), mentre oggi è stata la volta di Ubi Banca con un bond di importo analogo ma scadenza inferiore ai 4 anni (aprile 2017), con una cedola del 2,75% (che con prezzo di reoffer pari a 99,727 equivale al 2,836%) oltre che di UniCredit, che ha emesso un bond a 12 anni per un miliardo, con cedola 5,75%  e prezzo di reoffer pari a 99,91. Se per l’istituto ligure (rating Baa1 per Moody’s e BBB+ per Fitch) lo spread sopra il mid swap di pari durata è risultato pari al 2,75%, nel caso della banca popolare lombarda (rating Baa2 per Moody’s) lo stesso è stato indicato pari all’1,95% mentre UniCredit ha pagato una maggiorazione del 4,10%.

Conclusione, visto anche l’impegnativo calendario di rimborsi/rinnovi dei bond bancari che vengono a scadere da qui agli inizi del 2015 e visto che la Bce stessa non può forzare troppo la mano, pena accuse di “partigianeria” o peggio pena la perdita della sua credibilità come prestatore di ultima istanza di indiscussa qualità: o la crescita riparte e rende possibile tenere sotto controllo l’andamento delle sofferenze/svalutazioni su crediti e riequilibrare il rapporto prestiti/depositi senza eccessivi ulteriori sforzi, contribuendo anche a sgonfiare la mina del debito/Pil, o si continuerà a correre il rischio che la parte più debole del sistema (le banche italiane e spagnole) vengano penalizzate ulteriormente dal mercato, con rischio elevato di nuovo e stavolta forse definitivo avvitamento della crisi banco-sovrana. Che a quel punto porterebbe a una serie di default privati a catena sino alla detonazione di uno o più default sovrani, per dirla come l'amico Mario Seminerio.

E’ solo un’ipotesi naturalmente, ma che la mossa di Draghi per disinnescarla innescare polemiche anche in Italia, paese che più ne beneficerebbe, lascia quanto meno perplessi circa la capacità dei media (e dei politici) di casa nostra di leggere correttamente la vicenda. A meno che, naturalmente, non siano  tutti sicuri che la ripresa sia “dietro l'angolo” e che si tratti solo di “regali alle banche”, quelle stesse che, curiosamente, stanno continuando a ritirare il credito per cercare di aggiustare i propri requisiti patrimoniali.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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