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Il perchè della lungaggine dei processi civili in Italia

I processi In Italia sono molto lunghi, molto dipende dall’alto numero di cause e dal basso numero dei magistrati, ma non tutti sanno che le lungaggini dipendono anche da procedure giudiziarie (si pensi all’udienza di precisazione delle conclusioni ex art. 189 cpc) che potrebbero – facilmente – essere semplificate con un vantaggio complessivo per il sistema giustizia.
A cura di Redazione Diritto
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Questo articolo è a cura dell’Avvocato Giuseppe Palma del Foro  di Brindisi. Appassionato di storia e di diritto, ha sinora  pubblicato  numerose  opere di saggistica a carattere storico – giuridico. 

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Il perchè della lungaggine dei processi civili in Italia. Un esempio su tutti: l’udienza di precisazione delle conclusioni ex art. 189 c.p.c.

Uno dei problemi più gravi del nostro Paese è la non più tollerabile lungaggine dei processi civili. Se un artigiano, o una società per azioni, vogliono ad esempio ottenere il pagamento di alcune fatture rimaste insolute, capita spesso che tra ingiunzione di pagamento, opposizione a questa e regolare corso di un processo ordinario passano, tra il primo grado ed un eventuale ricorso per Cassazione, non meno di dieci anni. Tutto ciò, chiaramente, non è più tollerabile per un Paese che pretende di essere chiamato “civile”. Ed è totalmente sbagliato, a mio modo di vedere, attribuire la responsabilità al fatto che ci sono troppi avvocati o alla “necessità” di trovare vie alternative alla normale tutela giurisdizionale, anche perché questa è uno dei capisaldi dello Stato di Diritto (art. 24 della Costituzione) e non può – in nessun caso – essere sacrificata.

Quale soluzione bisognerebbe quindi individuare per risolvere il problema?

Esistono, a mio modo di vedere, delle possibilità di intervento legislativo che – per poterle realizzare – non occorrono più di due o tre settimane.

Forse in pochi sanno che nel processo civile i rinvii più lunghi si hanno dall’udienza di assunzione dei mezzi istruttori (ex art. 184 c.p.c.) all’udienza di Precisazione delle Conclusioni (ex art. 189 c.p.c.). Capita spesso, soprattutto nei Tribunali più grandi, che dall’udienza ex art. 184 c.p.c. all’udienza ex art. 189 c.p.c., trascorrano parecchi mesi, se non addirittura anni; così come è ormai “prassi” consolidata (ed è una cosa sotto gli occhi di tutti) che in Corte d’Appello, tra la prima udienza e quella di Precisazione delle Conclusioni, trascorrano in media non meno di tre anni, senza che vi sia neppure un’udienza intermedia (in Corte d’Appello, infatti, non v’è quasi mai l’udienza di ammissione dei mezzi istruttori).

Se poi si analizza a cosa serve per davvero un’ apposita udienza di Precisazione delle Conclusioni, allora vengono i brividi addosso: in tale udienza le parti (quindi gli avvocati) depositano un foglio in cui rassegnano quelle che sono le Conclusioni (domande) sulle quali il Tribunale – o la Corte d’Appello – dovranno decidere. In realtà, sempre a mio modo di vedere, è un’udienza del tutto inutile in quanto le Conclusioni sono già rassegnate nell’atto introduttivo del giudizio (atto di citazione o ricorso per parte attrice / comparsa di costituzione e risposta o memoria difensiva per parte convenuta), con la possibilità per le parti stesse di poterle già “precisare” o “modificare” con un ulteriore atto, vale a dire la memoria num. 1 ex art. 183 co. VI c.p.c. (quella che di solito si deposita entro trenta giorni dalla prima udienza).

Ciò premesso, per quale motivo il Codice di Procedura Civile prevede un’apposita udienza di Precisazione delle Conclusioni dopo l’udienza di assunzione dei mezzi istruttori? In realtà – di per sé – una logica l’udienza ex art. 189 c.p.c. ce l’ha, ed è quella che le parti rassegnino le proprie Conclusioni a seguito delle risultanze delle istanze istruttorie formulate dalle parti (all’esito delle prove). Nella prassi, tuttavia, le parti si limitano quasi sempre a riportare – e quindi a richiedere l’accoglimento – di quelle stesse Conclusioni così come sono state già rassegnate nell’atto introduttivo del giudizio, al massimo modificate o precisate con la memoria num. 1 ex art. 189 c.p.c. Del resto, ed è bene sottolinearlo, gli avvocati non possono neppure fare diversamente di così, infatti l’attuale formulazione dell’art. 189 c.p.c. prescrive che, nel precisare le Conclusioni, le parti debbono farlo nei “limiti” di quelle già formulate negli atti introduttivi, quindi va da sé che non è una “mancanza di fantasia” da parte degli avvocati; è proprio una prescrizione di legge!!! Tale situazione, ovviamente, non è più tollerabile.

Se la situazione è davvero così paradossale, per quale motivo la legge continua a prevedere l’udienza di Precisazione delle Conclusioni? A mio parere, e non voglio polemizzare con nessuno, l’udienza ex art. 189 c.p.c. è un’udienza di mero “smistamento” che serve unicamente ai Magistrati per poter smistare e organizzare il carico di Sentenze da emettere (infatti dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni ci sono normalmente 60 giorni per il deposito delle comparse conclusionali ed ulteriori venti giorni per il deposito delle memorie di replica, e quindi nei successivi quindici giorni – termine ordinatorio – il Magistrato dovrà necessariamente emettere una Sentenza).

Detto questo, la famigerata udienza di Precisazione delle Conclusioni è uno strumento a quasi totale comodo dei Magistrati, infatti con essa i Giudici possono decidere come smistare il proprio carico di lavoro sulla base del numero di fascicoli (e quindi cause) sulle quali dovranno emettere la Sentenza. Faccio un esempio: se io Magistrato rinvio una causa all’udienza di Precisazione delle Conclusioni tra un anno, per me vuol dire che dovrò iniziare a preoccuparmi di leggere e studiare quella causa non prima di un anno, e in questo modo decido quanto e come lavorare.

Ma in tutto questo giochetto, purtroppo, a farne le spese è l’inerme cittadino, il quale non può in alcun modo comprendere – e vorrei ben vedere come potrebbe essere il contrario – questo meccanismo perverso. Per di più è quasi impossibile anche per gli avvocati spiegare ai propri clienti il perché, per poter ribadire le domande già richieste con l’atto introduttivo, c’è bisogno di un’ apposita udienza fissata con un rinvio che spesso supera la soglia della normale tollerabilità…

Eppure sarebbe sufficiente – e per farlo il Parlamento non avrebbe bisogno di più di due o tre settimane al massimo – modificare l’art. 189 c.p.c. con una disposizione di questo tipo: <<Le parti, entro quindici giorni dall’udienza in cui il Giudice o la Corte ritengono la causa matura per la decisione, devono depositare in Cancelleria il foglio di precisazione delle conclusioni che intendono sottoporre al Tribunale o alla Corte>>.

Stop! Null’altro!

Ecco come – con una disposizione che ho concepito, scritto e corretto nell’arco di appena tre minuti – è possibile evitare inutili lungaggini temporali del processo civile. In questo modo, se fosse approvata una disposizione similare a quella di cui sopra, si guadagnerebbero circa un anno in primo grado e non meno di tre anni in secondo grado, con un servizio a favore del cittadino che soddisferebbe – non poco –  le legittime pretese di chi vuole ottenere giustizia.

Tutto ciò premesso, per quale motivo il Parlamento non concepisce una disposizione di legge come quella che ho proposto io? C’è forse una forte opposizione da parte della Magistratura? E’ forse la politica che non vuole intervenire? Lascio al lettore ogni libero commento.

Ritengo pertanto di aver dimostrato, senza paura di essere tacciato come presuntuoso, che per rendere molto più brevi i tempi dei processi civili e quindi garantire ai cittadini una Giustizia più rapida, sono sufficienti appena tre minuti, il tempo necessario per scrivere una disposizione come quella sopra proposta. Per quale motivo politica e magistratura aprono infiniti tavoli di discussione per poi partorire porcate come quella della Mediazione civile e commerciale (D.Lgs. n. 28/2010)? Perché non elaborare soluzioni semplicissime come quella che ho proposto pocanzi? Tutte queste domande, che vi posso garantire si pongono sia i politici che i magistrati, non possono trovare soluzioni semplici in quanto – ed è un dolore ammetterlo – esistono corporazioni ed interessi trasversali che evitano di adottare soluzioni semplici per problemi complessi. E mi fermo qui!

Se poi pensiamo a quanto accade in Corte d’Appello, allora – oltre ai brividi – viene anche l’orticaria. Con l’atto di citazione in appello, la parte impugna la Sentenza emessa in primo grado e, generalmente, chiede la revoca della Sentenza emessa dal Tribunale. Alla prima udienza, se il ricorso in appello supera il famigerato “ filtro” (altra aberrazione giuridica concepita nel 2012 e che ha introdotto l’art. 348 bis c.p.c.), la Corte rinvia la causa all’udienza di Precisazione delle Conclusioni (per poter ribadire quanto le parti hanno già chiesto nelle Conclusioni rassegnate degli atti introduttivi) fissandola – in media –non prima di tre anni.

Forse il lettore non mi crederà e penserà che sto esagerando… ma posso garantirvi che ho scritto la pura e sacrosanta verità: la Giustizia in Italia funziona così!

Se per ribadire quindi le Conclusioni già rassegnate nell’atto introduttivo ci vuole un’apposita udienza fissata – in media – dopo circa un anno se la causa è radicata davanti al Tribunale e dopo circa tre anni se è radicata in Corte d’Appello, per quale motivo il Legislatore ha introdotto la PEC (Posta Elettronica Certificata)? Non sarebbe stato più logico – oltre che più conveniente – modificare, ad esempio, prima l’articolo 189 c.p.c.? La PEC è sicuramente un grande strumento di aiuto per il corso dei processi, ma se non si interviene anche sulla struttura processuale, allora ogni innovazione di tipo tecnologico diventa inutile.

Ma la cosa più sconvolgente è sapere che la modifica dell’art. 189 c.p.c. – così come da me proposta – è solo un esempio di come si possono abbreviare i tempi dei processi civili. Ci sarebbero tanti piccolissimi interventi legislativi da innestare sull’attuale impianto processuale che, senza stravolgere assolutamente nulla, accorcerebbero i tempi processuali di moltissimo, come ad esempio si potrebbe rendere perentorio il termine di quindici giorni entro i quali il Giudice deve emettere la Sentenza a seguito della scadenza dei termini per il deposito delle memorie di replica (ex art. 190 c.p.c.); oppure si potrebbe introdurre un articolo “190 bis c.p.c.” con il quale il Legislatore preveda un termine perentorio entro il quale gli organi giurisdizionali devono emettere una Sentenza, e così via…

Ma la verità, forse, è un’altra: senza la buona volontà della politica – e soprattutto della Magistratura – il processo civile italiano continuerà ad andare a rotoli e, il tutto, a scapito della legittima domanda di Giustizia pretesa dal cittadino sovrano.

E dire che eravamo la culla del diritto… come ci siamo ridotti!

Avv. Giuseppe Palma

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