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Perché Spider-man è la storia delle nostre vite

“Spider-man No way home” è l’ultimo film della saga dell’Uomo Ragno che è la storia delle nostre vite, una storia capace di unire generazioni e attraversare il tempo e lo spazio.
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Leggo fumetti da quando ho poco più di sette anni – che è l’età che ha il mio piccolino grande adesso che ha cominciato a leggere i suoi fumetti, che poi sono i miei e ormai nostri – e in questi 36 anni (che a scriverli così fanno un po’ impressione perché sembrano davvero tanti), non ho mai smesso di leggerli in ogni loro forma. Certo ho meno tempo, ho dei gusti più selettivi, spesso preferisco un graphic novel ai cari vecchi spillati, ma c’è un filo rosso e blu, anzi una tela, che lega tutti questi miei anni di ricordi: Spider-man che per quanto mi riguarda è e resta l’Uomo Ragno.

Per me l’Uomo Ragno è la storia delle nostre vite, in cui ogni giorno non possiamo mai arrenderci, commettiamo errori cercando di porvi rimedio e continuiamo nonostante tutto a fare quel che facciamo sempre: cadere e rialzarci. Perché non è l’Uomo Ragno il vero protagonista, ma è Peter Parker, un ragazzo qualunque del Queens, non un uomo volante con i poteri di un dio o un inventore plurimilionario, ma Pete, uno di noi. E i mostri che ogni volta cercano di lasciarlo a terra, sono gli stessi che affrontiamo nelle nostre vite: i bulli, i razzisti, gli omofobi, i sessisti, i piccoli e grandi orrori quotidiani, le enormi difficoltà di tutti i giorni. E quando vediamo Spidey che cerca di rialzarsi, distrutto dai colpi e dai sensi di colpa, beh siamo noi che tutto sommato cerchiamo di andare avanti, di non arrenderci ai letali nemici di Spider-man, quelle persone che ogni maledetto giorno ci dicono che quel che vogliamo è impossibile, quando noi sappiamo benissimo che l’impossibile è soltanto una possibilità che non si è ancora realizzata.

L’Uomo Ragno siamo noi ed è per questo che l’ho amato e lo amo incondizionatamente, è per questo che c’è una sua storia legata ad ogni momento della mia vita, è per questo che ogni volta che lo leggo torno quel ragazzino che amava condividere le sue storie con il suo migliore amico, Baffo (il soprannome che gli avevo dato per via dei suoi baffi che avrebbero fatto invidia a Frank Zappa nonostante la nostra tenera età). Eravamo inseparabili io e Baffo, i migliori amici per la pelle: lui da grande voleva fare il disegnatore, io l’attore e lo scrittore. Io ero innamorato perso della mia piccola Gwen della seconda B, lui del suo Peter della quinta A. Eravamo in simbiosi, anzi eravamo l’uno il simbionte dell’altro: riponevamo uno ad uno i nostri albi in sacchetti di plastica richiudibili, facevamo collezione delle pochissime copertine variant che uscivano a quei tempi (ricordo ancora come fosse ieri quella del matrimonio dell’Uomo Ragno con Mary Jane che ci arrivò per posta), sognavamo di viaggiare, di andare a Lucca (che appariva lontanissima a dei ragazzini del sud nei primi anni ’90), eravamo inseparabili. E così è stato così fino a un maledetto giorno di novembre.

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Baffo quella mattina non venne a scuola perché aveva deciso di andarsene in silenzio, senza avvisare nessuno, di notte. Forse perché non riusciva più a sopportare tutti quegli sguardi maledetti, quelle urla dietro le spalle, quelle risatine e parole che facevano male come un coltello, come un aliante ficcato nella schiena, quelle continue prese in giro cattive e senza motivo, solo perché lui era considerato diverso da ciò che loro consideravano normale. Non so perché sia accaduto: forse quella notte non era riuscito a rialzarsi, forse io non ero stato in grado di aiutarlo o forse semplicemente questo mondo era troppo poco per lui. Quale sia stata la ragione – che purtroppo non abbiamo mai potuto conoscere – non c’è stata una volta, in tutto il resto della mia vita, in cui leggendo le storie dell’Uomo Ragno non abbia pensato a lui, a cosa avrebbe detto, a come lui lo avrebbe disegnato, a come sarebbero potute andare le cose, "What if…". A raccontarlo a posteriori credo che quello sia stato il giorno in cui il mio cielo di carta si è strappato, in cui non sono riuscito a salvare Gwen, è stato il mio “snap”, il numero in cui sono diventato adulto, in cui ho imparato che non è vero che i buoni vincono sempre, anzi. Ma nonostante tutto non ho mai smesso di credere nei sogni, di credere in un altro mondo possibile, di credere che da un grande potere derivano grandi responsabilità.

Sono passati quasi trent’anni da quel maledetto giorno da cani dei primi anni ’90, oggi ho una ragazza (bionda che di tanto in tanto mette una fascia larga sui capelli), un bimbo e una bimba bellissime che sono un piccolo grande pezzo di quell’altro mondo che non ho mai smesso di credere possibile, ho appena impacchettato e nascosto due volumi di Spiderman che il mio piccolino ha chiesto nella sua letterina e ieri, tutti e quattro, siamo andati al cinema a vedere "Spider-man: No way home". Francamente non so dirvi chi di noi fosse più eccitato o emozionata.

Posso soltanto dirvi – per ora che non è giusto fare grandi spoiler – che è stato meraviglioso. Perché è una storia bellissima, perché è un film incredibile ovvero amazing, perché tutti i sogni di un ragno-fan si realizzano davanti ai tuoi occhi, perché ogni dieci minuti c’è uno stupefacente motivo per cui gridare wow e rimanere a bocca aperta come un ebete fino al prossimo wow, perché è un racconto ad incastri perfettamente riuscito, perché tesse la tela di una trama che unisce mondi e generazioni come solo le grandi storie sanno fare.

Ecco perché l’Uomo Ragno è la storia delle nostre vite. Certo molti e molte diranno che è un tizio in calzamaglia rossa e blu che se ne va in giro a spruzzare ragnatele saltellando da un palazzo all’altro, che ci sono alieni gelatinosi che si attaccano addosso e ti vogliono mangiare, folletti verdi che volano su pipistrelli di ferro, cloni, viaggi nello spazio, ragno-mobili, resurrezioni, diavoli dell’inferno, ninja, città sotterranee, vampiri, scambi di cervelli e universi paralleli, ma non importa, questi sono soltanto gli orrori quotidiani che combattiamo tutte e tutti, quel che importa è che dietro quella calzamaglia, a combattere tutto questo, c'è uno di noi.

Noi siamo Peter Parker. Ed è per questo che a metà film mentre Peter piangeva disperato, anch’io piangevo (anche perché sfido chiunque a non piangere durante quella scena). Ma in realtà piangevo perché non riuscivo a non pensare al mio piccolo amato Baffo che non c’è più, ucciso dagli orrori che lo circondavano, proprio come il personaggio che perde la vita in quella scena. Ed ho continuato a piangere fin quando il mio piccolino mi ha visto – nonostante cercassi in tutti i modi di nascondermi nel buio della sala – e mi ha detto (ad alta voce perché i bambini al cinema non sussurrano mai, urlano maledetti!): "Papone non piangere, vedrai che adesso Peter sistema tutto!".

Allora l’ho abbracciato fortissimo e per un attimo son tornato ad essere quel ragazzino che sognava ad occhi aperti convinto che i buoni vincono sempre, perché le storie hanno un potere straordinario, sono capaci di unire le generazioni, di portarti ovunque, attraversare il tempo e lo spazio e io sono certo che in giro per il multiverso ci sia da qualche parte un mondo parallelo dove ognuno può amare come vuole e chi vuole e il mio piccolo amato Baffo sarà un grande disegnatore di storie, felicemente innamorato del suo Peter di quinta B, con un paio di mostriciattoli urlatori attaccati al braccio a guardare un film dell'Uomo Ragno. E dopo aver finito di vederlo usciamo tutti insieme e io e lui non smettiamo di parlarne per almeno una settimana.

Da un grande potere derivano grandi responsabilità – come era stato appena detto in una delle più belle scene di tutti i film di Spider man di sempre –  e non dovremmo mai dimenticare che è una nostra responsabilità cercare di essere felici e di far sì, con ogni potere a nostra disposizione, che lo siano tutte e tutti. Perché la felicità non è tale se non è condivisa e di certo Baffo sarebbe stato felice di vederci lì, insieme. Perché non c'è niente di più bello di stare insieme.

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