
Se ci fossero istruzioni per spiegare il meccanismo che ci spinge ad ascoltare a ripetizione una canzone e non togliercela più dalle sinapsi, sarebbero incluse in qualche corso di songwriting e produzione, magari in un master per professionisti dell’industria. Invece riusciamo a malapena a indicare la direzione in cui una valanga procede a sotterrarci di riproduzioni, meme, montaggi, e possiamo accontentarci di descrivere questo moto travolgente di ascolto e coinvolgimento dal basso senza riuscire a scorgere il punto di origine del tutto, la deflagrazione della tempesta perfetta. Sappiamo bene cosa ha portato L’amore non mi basta di Emma al primo posto della Top 50 nazionale di Spotify e al secondo posto della FIMI, appena sotto il Leviatano stagionale di Mariah Carey All I Want For Christmas Is You: i montaggi ironici-ma-onesti, gli stessi atti di memificazione sentimentale a base prevalentemente calcistica che avevamo menzionato già parlando di Eddie Brock, e che sono stati perfettamente individuati, valutati e spiegati su queste pagine.
Ma tutto questo spiega solo una parte della storia, la parabola discendente che travolge tutto quanto. Resta una domanda: cosa spinge centinaia di migliaia di italiani a recuperare non una canzone qualsiasi, ma proprio quella canzone? Cosa porta un trend fuori dal social in cui è nato e dentro le abitudini di ascolto? Peraltro proprio nel momento in cui insidiare le canzoni natalizie sembra sempre più difficile, ora che hanno scavato un fossato intorno alla loro roccaforte stagionale.
Dobbiamo capire, quindi, cosa ci sia di intrinsecamente potente ed efficace dentro questa canzone. E per farlo, come sempre, torniamo alla radice: la composizione e la produzione. Firmata da Daniele Magro e prodotta da Brando e Fabrizio Ferraguzzo, L'amore non mi basta di Emma rappresenta perfettamente l’epoca in cui è uscita. Con il suo ambiguo cocktail di angoscia ed energia, spinto in positivo da una sorta di autosuggestione; con il suo giro di accordi che sprofonda e risale; con la sua batteria muscolare e le sue chitarre a gasolio; con le sue parole da empowerment a metà, dove l’indipendenza non riesce a non spargere qualche goccia di vittimismo. Ogni elemento di questa canzone ci parla del periodo d’oro per il pop delle ragazze, quella fase storica tra fine anni Zero e metà anni Dieci in cui tutte le maggiori autorità della musica commerciale occidentale erano donne forti e sensibili, endiadi più inscindibile della forza nucleare di un atomo. E al centro di questa alchimia, due colonne portanti: un giro d’accordi particolarmente fortunato, che parte con un accordo minore e finisce accelerando in salita come un pazzo; l’accostamento che allora sembrava ancora inusuale tra una voce femminile e un arrangiamento rock.
Del secondo elemento c’è poco da dire, perché la sua eccezionalità si fonda su un’illusione prospettica: il rock fatto dalle ragazze esiste da sempre, almeno dal 1938 con Rock Me di Sister Rosetta Tharpe, prima ancora che un maschio indossasse i pantaloni larghi, i capelli all’indietro e le scarpe di lacca. Nell’eterno oblio del contributo femminile alla musica popolare, la critica ha spesso oscurato il contributo di autentiche pioniere che passo passo, accanto ai ben più acclamati colleghi di genere maschile, hanno dettato la linea in campo di stile, registro, suono. Da Joni Mitchell a Laura Nyro, da Janis Joplin a Patti Smith, da Debbie Harry alle Shirelles, Supremes e Ronettes senza le quali non esisterebbero i Beatles, la musica rock nordamericana nelle sue molte incarnazioni ha dovuto scoprire regolarmente il contributo delle donne alla sua complessa estetica. E noi, nella periferia dell’impero, ripeschiamo regolarmente lo stesso pregiudizio, solo con un fisiologico ritardo, ogni volta che ci dimentichiamo di Rita e di Mina, di Patty e di Mia, di Gianna e di Loredana, e così via. Insomma, non c’è mai stato nulla di veramente insolito in una ragazza che canta una canzone sopra un muro di chitarre elettriche. La coesistenza della forza e della fragilità, tuttavia, ha veramente fiorito nell’età dell’oro delle pop girls sopra indicata, approfittando di una temperie culturale che ha progressivamente visto mutare in senso progressista il discorso intorno alle donne nella musica.
Gli anni di Pink e Shakira, Kelly e Gaga, Katy e Kesha, quindi, hanno incastonato una volta per tutte nell’immaginario questo binomio ormai divenuto cliché (e quindi riappropriato dai maschi), che si è dipanato in tutto il suo potenziale, dal malcelato paternalismo al contenuto sinceramente accattivante. E del resto, cosa c’è meglio di una canzone che ti fa sentire coccolato e caricato a molla? Compianto ed esaltato? Gli anni di Emma sono stati densi di queste proposte musicali, canzoni che devono rabbuiarsi e poi esplodere come Stronger e We Found Love, come Try e If I Were A Boy e così via. L’amore non mi basta, che da una canzone di Pink prende qualcosa in modo esplicito, presenta il dilemma della donna forte-ma-sensibile in tutta la sua chiarezza: Emma ci dice da subito che la dimensione della relazione e la sfera strettamente erotica del sentimento non sono sufficienti per definirla. In verità, chiunque può rivedersi in questo mood, e così a 12 anni di distanza una delle canzoni di maggiore successo della popstar si è allineata anche alla sensibilità di maschi che non cascano più nelle banali dicotomie da marketing musicale. Chiunque si rivede in questo dilemma, che la musica presenta chiaramente nella sua radice.
Per ottenere quel coacervo di emozioni contrastanti e un ciclo costante di discese e risalite, una progressione armonica ben congegnata può riuscire comoda. E quella che viene usata per le strofe di L’amore non mi basta è tra le più efficaci della storia della musica pop. Esattamente come le canzoni menzionate sopra e come tantissime altre hit dei primi due decenni del nuovo secolo, la hit di Emma si basa su un loop di quattro accordi talmente convenzionale da essere diventato oggetto di ironie (o di imbarazzanti e stralunate accuse di plagio). La particolare composizione del giro di accordi di L’amore non mi basta presenta un preciso flusso emotivo, nelle strofe: quella che potrebbe essere chiamata la sua versione minore, o pessimistica. Si parte con un accordo minore, l’unico del giro, ma che dà il sapore amaro alle scene di passaggio che chiamiamo strofe; si scende all’accordo di quarto grado, che suona al nostro orecchio come la prefazione del preludio di un’incipit, cioè l’attesa per definizione senza ombra di risoluzione; quindi si casca sulla tonica con una cadenza che suona come un’eterna incompiuta, un inciampo più che un passo, che però ci mette per la prima volta in una posizione di forza da cui possiamo perfino scalare fino al quinto grado, e darci lo slancio per ricominciare da capo. Metaforicamente e no. La canzone di Emma ci presenta questo ciclo con un ritmo incalzante, racchiudendolo in due battute al tempo di una chitarra semi-muted che tiene il ritmo con una marcia irrefrenabile di ottavi: thud-thud thud-thud thud-thud thud-thud, mentre Emma si descrive come “tempesta e paravento”, una somma di contraddizioni che è necessario far esplodere in un ritornello più chiaro e aperto.
Proprio come Try di Pink, modello esplicito del brano su cui Emma ha fatto il calco, anche L’amore non mi basta allenta le maglie ritmiche-armoniche nel ritornello: una volta che abbiamo consumato la barretta energetica della strofa, possiamo permetterci di allargare il nostro orizzonte e lasciare che tra le maglie più lasche degli accordi la voce muscolare di Emma prenda il sopravvento con un importante aumento di potenza, corrispondente a una nuova combinazione degli stessi quattro accordi. Questo è il momento cruciale, in cui deve esserci venduto come credibile lo slogan della canzone, ed è significativo che con l’allentamento della struttura si presenti anche una versione (per così dire) “più maggiore” della medesima progressione: a questo punto stiamo marciando, non c’è più alcuna ombra di esitazione. Emma è l’avatar della parte della nostra personalità più fiera e cazzuta, la rappresentazione pop di ciò che vorremmo essere anche noi quando ci sentiamo più vulnerabili ed esposti. Un qualsiasi fan calcistico può capire questa contraddizione: puoi ringhiare dagli spalti (o dal divano) come l’indurito legionario di una falange sanguinaria, e poi un attimo dopo sentirti pugnalato al cuore come un pallido e smunto eroe romantico, il tutto nel giro di un calciomercato o di un minuto di recupero. Ma alla fine, come persone e come tifosi, vogliamo crederci diretti verso un gran finale: L’amore non mi basta promette esattamente questo, e il suo meccanismo infallibile sembra funzionare ancora, nonostante qualche intoppo.
Il pop, infatti, non è più quello di una volta. Proprio come il calcio. Certo, Taylor Swift continua a sfornare canzoni epiche e sensibili che fanno uso dei soliti quattro accordi come se il tempo non la riguardasse. Ma la maggior parte di noi è andata avanti: la canzone più streammata nel mondo, nel 2025, secondo Spotify non assomiglia a nulla di quanto abbiamo appena esposto. Se possibile, suona ancora più vecchia. Cioè, nuova per orecchie non preparate. E dov’è finito il caro vecchio pop che ci fa andare dritti verso il futuro? Forse nello stesso cassetto dove abbiamo dimenticato il futuro stesso? Riascoltare una canzone come L’amore non mi basta, nell’inverno 2025, ci riporta a galla ricordi fanciulleschi o adolescenziali nel caso dei ventenni o trentenni che oggi la riprendono. Non che sia mai stata una canzone di scarso successo: il disco di platino maturato in un’epoca in cui Spotify era a malapena arrivato sul mercato italiano vuol dire già qualcosa di suo. Ma riprenderla oggi significa qualcosa in più: tirare una riga sullo snobismo verso il pop, magari ricordarsi che i propri gusti giovanili non erano così sballati, e quindi assolversi e provare a ripartire da zero. Proprio quello che la canzone vorrebbe raccomandare.
Funziona perché ci ricorda delle possibilità esplosive che può avere la musica pop. Certo, la distanza tra noi e il 2013 ci fa dimenticare di quanto fosse diventato formulare e scontato un certo tipo di soluzione compositiva e di arrangiamento. Ma ora che quel modo di intendere le canzoni pop è tornato inusuale, ora che il cliché del forte-e-fragile è stato sbolognato in ogni possibile incastro e risulta sbiadito ai margini, ora che il contesto è scomparso, L’amore non mi basta può tornare a esprimere potenza e dolcezza come era destino che facesse. Forse è solo una botta di nostalgia nel mezzo di una stagione natalizia che si presta bene a questo sentimento. Potrebbe essere il segnale che abbiamo bisogno di nuovi scossoni dalla nostra musica pop, anche a costo di perdonare qualche banalità: diffidenti della sincerità di quanto ascoltiamo oggi, diremo che è stata una banalità cantata in buona fede.