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Opinioni

“I fratelli Michelangelo” di Vanni Santoni. “Da Proust a Mann, il mio romanzo cattedrale”

Intervista a Vanni Santoni, l’autore de “I fratelli Michelangelo”, edito da Mondadori, che venerdì 3 maggio sarà presentato alla Fondazione Premio Napoli. “Da anni avrei voluto scrivere una narrazione massimalista contemporanea” dichiara l’autore toscano. “Un romanzo che si ergesse come una cattedrale…”
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Il viaggio di quattro fratelli per incontrare il loro padre, Antonio Michelangelo, uomo novecentesco per eccellenza, un fallito di successo dalle caratteristiche epiche che li ha invitati a un'insolita riunione di famiglia. È questa, in estrema sintesi, la trama de "I fratelli Michelangelo" di Vanni Santoni, l'autore toscano che una decina d'anni fa si rivelò con gli "Gli interessi in comune", tornato da poco in libreria per Mondadori con uno dei romanzi più attesi dell'anno e che il 3 maggio sarà presentato alla Fondazione Premio Napoli, nel capoluogo partenopeo, con l'introduzione di Domenico Ciruzzi, presidente della prestigiosa istituzione partenopea, e l'intervento di Mirella Armiero, responsabile delle pagine culturali del Corriere del Mezzogiorno.

Vanni Santoni, classe 1978, torna al romanzo dopo il romanzo "La stanza profonda", uscito per Laterza e candidato al Premio Strega, per raccontare  la storia di quattro fratelli con lo stesso padre, ma di madri diverse, fino allo "scontro finale col mostro". Da Tolstoj a Mann, diversi i precedenti con cui questo suo nuovo lavoro si confronta. Per questa ragione, allo scrittore ed editor (Santoni si occupa della collana di narrativa italiana di Tunué), ho posto delle domande a partire da qui.

Come è nata, provenendo dai libri che finora hai scritto, l'idea di voler scrivere un romanzo così imponente e, a suo modo, classico?

L’idea di fare qualcosa di “grosso”, di provare ad alzare l’asticella per me e in generale, la covo da diverso tempo, anche da prima di cominciare "I fratelli Michelangelo", le cui prime righe sono state scritte nel 2012. Mi ero formato coi grandi romanzi dell’Ottocento, con Tolstoj, Balzac, Dostevskij, Flaubert, Eliot, poi avevo perso la testa per i capolavori del modernismo, "Alla ricerca del tempo perduto" e "Ulisse" su tutti, e poi – passando per Rayuela, che in qualche modo univa questa mia passione per il romanzo di ampio respiro per il mio primissimo idolo, Borges – mi ero nuovamente innamorato delle grandi narrazioni massimaliste contemporanee: "Infinite jest" di Wallace, "Underworld" di DeLillo, "I detective selvaggi" e "2666" di Bolaño…  Anche nel romanzo italiano, le cose che mi avevano interessato di più erano il "Kaputt" di Malaparte, "La Storia della Morante", "Horcynus Orca" di D’Arrigo… Mi interessava, e mi interessa, la capacità che ha il romanzo di farsi cattedrale, per mutuare una definizione applicata proprio alla Recherche, ovvero un enorme contenitore di storie, personaggi, pensiero, riferimenti intertestuali (per tacere di cose più ludiche come elementi segreti, chiavi e controchiavi interpretative nascoste, sottotrame…) pur mantenendo una sua piena – e primaria – specificità di opera d’arte univoca e compiuta.

Dove nasce il "fuoco" de "I fratelli Michelangelo" e quale ne è, tra i diversi potenziali, il principale per te?

Non è un fuoco tematico, ma strutturale, di portata: era la volontà di trovare un contenitore vasto e coerente per le mie cose e vedere dove sarei potuto arrivare (e cosa ci sarebbe finito dentro). Ricordo che già nel 2009 covavo l’idea di un’opera corale e transnazionale… Non ha mai visto la pubblicazione ma in ogni caso non aveva questo respiro perché non avevo abbastanza esperienza e la mia scrittura era piena di difetti. Forse, tra tante, la cosa che rendeva più impraticabile una simile ambizione era il fatto che non avevo ancora imparato a “gettare le basi al buio”, ovvero mi mancava la capacità di intuire il potenziale, sia narrativo che di collegamento con altre parti, di elementi anche solo appena abbozzati. Né avevo ancora imparato a tenere una testura costante tra narrazione e speculazione filosofica, una caratteristica che il romanzo che davvero voglia dirsi tale deve necessariamente avere, come ben ci insegnano Broch e Musil, e, cosa strettamente connessa, ero ancora inesperto nell’uso dell’intertestualità. Queste ultime due sono entrambe cose che ho imparato, credo, a fare con "Muro di casse" e "La stanza profonda".

Da ciò che dici emerge una certa consapevolezza del mezzo letterario. In proposito, ho una curiosità dopo aver letto il romanzo. Ne intravedevi sin dall'inizio la sua architettura o l'hai scoperta strada facendo?

Quando si scrive un romanzo “puro”, difficilmente si sa dove si andrà. Coi testi avventurosi, a prescindere da quale sia il genere, puoi creare un soggetto che poi si sviluppa in storyboard, e seguirlo; coi romanzi a tema, dopo la fase di ricerca puoi creare un primo arcipelago di punti di senso “certi” e capire quali potrebbero essere le scene più adatte a intercettarli. Nel caso di un libro come "I fratelli Michelangelo", tutto questo non è solo impossibile, è proprio sbagliato. Devi inseguire singole immagini, quando va bene singole scene, e vedere se da lì si coagula un personaggio, se quel personaggio sviluppa una voce… Infatti, è andata così. Sapevo solo che nel libro ci sarebbero stati determinati luoghi – Delhi, Stoccolma, Londra, Berlino, Parigi, Tel Aviv – in cui avevo passato periodi anche lunghi della mia vita e vissuto esperienze importanti, ma non molto di più.

Puoi farci qualche esempio?

Ricordo bene quali sono state le prime tre scene ad apparire (o meglio: le prime tre che hanno avuto un effetto: chissà quante ne ho scritte che poi ho buttato). In una, mi figurai un tale che andava a trovare un amico nel carcere di un paese in via di sviluppo, e scopriva che gli avevano spaccato tutti i denti. In un’altra c’era un ragazzo che guardava la propria biblioteca e trascriveva tutti i titoli, notando come ognuno si legasse a una dimensione biografica personale: dove l’aveva comprato o letto, più che cosa c’era scritto dentro. Nella terza c’era una dottoressa di un certo rango che a fine giornata diceva alla caposala di non disturbarla, si metteva sul lettino e si faceva un’inframuscolo con la ketamina dell’ospedale. La prima scena è diventata l’attacco della parte di Louis Michelangelo, in cui incontriamo per la prima volta sia lui sia il socio Carlo Felici, già dietro le sbarre; la seconda la ritroviamo, molto cambiata nella parte di Enrico; dalla terza scena è nata la figura di Aurelia Michelangelo, che infatti è primario al San Raffaele, solo che poi la più anziana sorella Michelangelo ha preso un carattere che la rendevano del tutto incompatibile con l’idea di rubare un farmaco all’ospedale per farne uso voluttuario, e infatti la scena è scomparsa. La dottoressa, però, è rimasta.

Questo per quanto riguarda l'architettura della storia. Torniamo al rapporto tra trama e speculazione filosofica di cui parlavi prima. Relativamente ai temi che ogni personaggio ispira al lettore, come hai lavorato?

A quei tempi non esisteva ancora la figura di Antonio Michelangelo, e anche Cristiana e Rudra erano solo ombre, per quanto sarebbero nati, in embrione, sempre quell’anno, assieme all’idea di ricollegarmi al filone familiare dei Karamazov, dei Tanner, dei "Buddenbrook" e di "Cent’anni di solitudine", e quindi di fare di costoro cinque fratelli. Un altro tema che mi interessava era l’arte contemporanea, ed è venuto naturale associarlo a Cristiana, che ha preso forma reale assieme a Rudra tre anni dopo, nel 2015… A quel punto ho visto un movimento: realizzazione sensuale (Enrico), realizzazione materiale (Louis), realizzazione artistica (Cri), e capire che Rudra avrebbe dovuto rappresentare quella spirituale è stato automatico. Solo da allora, diciamo quindi con Enrico scritto per metà, Louis abbozzato e gli altri con sole poche pagine ciascuno, è venuto fuori il padre Antonio Michelangelo. I temi che ognuno poi tocca nella propria parte li ho proprio “trovati” seguendo il personaggio, il suo pensiero e la sua voce.

I riferimenti letterari del romanzo sembrano tanti e complessi. All'inizio della lettura ho temuto che potessero prendere il sopravvento e divorare la materia romanzesca. Dal titolo alla bandella, persino ciò che è ai margini dell'opera richiama altre opere. Alla fine, però, la lettura ha fugato ogni dubbio e il tuo romanzo è uscito fuori da sé…

Tutti i libri sono sempre figli dei libri che li hanno preceduti, e l’originalità nasce comunque dalla capacità di trovare una sintesi tra le influenze. Un’opera che ammiro molto per questa capacità è il "Berserk" di Kentaro Miura, che prende a badilate da cose diverse quanto possono esserlo Hellraiser, Ladyhawke, Willow, Devilman, Ken il guerriero, Lady Oscar, le opere di Doré, Escher o Bosch e però ne cava fuori qualcosa con una forza e un’originalità iconografica e narrativa che è soltanto sua. Circa il titolo: so che è ingombrante, infatti per anni è stato solo il titolo di lavorazione, non pensavo davvero che lo avrei tenuto. Ho capito che poteva andare quando mi sono ricordato dell’esistenza dei Fratelli Tanner – paragone già meno sbruffone! – ma soprattutto quando mi sono reso conto che "I fratelli Michelangelo" potevano essere sì i protagonisti Enrico, Louis, Cristiana, Rudra e Aurelia, ma anche loro padre Antonio col fratello Abramo. A quel punto mi sono fatto coraggio e l’ho messo. L’influenza di Dostoevskij c’era, anche se il vero padrino di questo libro è Mann, e più per il "Doktor Faustus" che per "I Buddenbrook". Franzen, seppur citato dall’editore in bandella – immagino pensando a "Le correzioni" – non rientra tra le mie influenze.

Una delle caratteristiche che trovo interessanti della storia è questa sorta di realismo che definirei "fantasmagorico", dove accanto a una dinamica visiva abbastanza verosimile dei personaggi, c'è però sempre un elemento che sembra derivare dalla letteratura di genere a farne da contrappunto, quasi come se i generi letterari nel romanzo-cattedrale di cui parli tracimassero l'uno nell'altro…

Un qualche grado di scollamento, oggi, è indispensabile. Dire che il realismo è superato non significa accodarsi alla già nauseante invasione delle distopie: significa prendere atto del fatto che le barriere tra i generi sono saltate e anche un autore che racconta una vicenda realistica può, e in alcuni casi deve, utilizzare dispositivi che arrivano dalla speculative fiction. Ma non solo: come sappiamo, l’idea di un mondo interamente controllabile, o almeno osservabile/spiegabile – all’interno del dominio della quale si è, di fatto, formato il romanzo realistico in quanto parentesi di un canone che prima ha sempre quantomeno flirtato col fantastico – è stata messa in discussione dagli ultimi avanzamenti della fisica, e anche la realtà quotidiana che viviamo è diventata una messe di informazioni schizoidi e metatesti tale da rendere inadeguate le narrazioni realistiche nel senso classico del termine: servono sempre dei varchi, degli sfiatatoi, delle perturbazioni, degli squarci visionari, e servono proprio per cercare di essere realistici. Lynch su questo ci ha insegnato molto.

Cosa si scrive dopo un'opera come questa? Provo a dirla in maniera un po' meno drastica: pensi di aver trovato una voce definitiva nella tua carriera di scrittore che intendi perseguire?

Penso che la cosa migliore sia fermarsi e leggere. E poi lavorare a cose più piccole e laterali, così da avere tempo per leggere ancora. Un grosso libro è sempre il frutto di tante, tante, tante letture e quindi bisogna ricaricare. In autunno Laterza ripubblicherà finalmente "Gli interessi in comune", il mio primo romanzo, mentre nel 2020 farò con Minimum fax un libretto sulla scrittura e il suo insegnamento e ho in mente qualche ulteriore progetto laterale, così da prendermi il tempo di trovare una storia su cui poi buttare con fiducia un po’ di anni di vita, visto che a quel punto tutti si aspetteranno “il libro che supera I fratelli Michelangelo”…

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Scrittore, sceneggiatore, giornalista. Nato a Napoli nel 1979. Il suo ultimo romanzo è "Le creature" (Rizzoli). Collabora con diverse riviste e quotidiani, è redattore della trasmissione Zazà su Rai Radio 3.
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