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125 anni dalla morte di Carlo Collodi, il creatore di Pinocchio

Sono passati 125 anni dalla morte di Carlo Lorenzini, detto Collodi, il creatori di “Pinocchio”, uno dei maggiori scrittori del secondo Ottocento italiano. Ricordiamolo ripercorrendone la grande fortuna che ha caratterizzato la sua opera in questi anni.
A cura di Luca Marangolo
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Per iniziare questo breve ricordo di Carlo Collodi, il papà di Pinocchio, vorrei riportare due citazioni che possono permetterci di entrare subito dritti al cuore della sua misteriosa esistenza di scrittore nonché della ragione, probabilmente più profonda, della sua carismatica eredità. La prima è di Claude Lévi-Strauss, il padre dell’antropologia moderna, che cerca di dare, una volta per tutte, al suo lettore, la difficile definizione di Mito:

E se si chiede a quale ultimo significato rinviino queste significazioni reciproche, che devono pur sempre riferirsi tutte insieme a qualcosa, l’unica risposta che questo libro suggerisce è che i miti significano lo spirito , il quale li elabora per mezzo del mondo di cui esso stesso fa parte. Possono così essere simultaneamente generati sia i miti stessi, per opera dello spirito che li origina, sia, per opera dei miti, una immagine del mondo già inscritta nell’architettura dello spirito.

Il mito è un significato che rimanda sempre a qualcosa di altro, è una metafora intrinsecamente densa e polisemica perché nasce dalla relazione fra lo spirito e il mondo, non è ingabbiato nella componente sociologica e convenzionale del linguaggio, che prevede un rapporto definito fra referente e significato; al contrario mette in contatto diretto il pensiero con l’immagine del mondo. La seconda è di Ferdinando Tempesti,  geniale critico e analista di Pinocchio che, per spiegare la ragione che lo ha portato a stendere il suo meraviglioso commento al romanzo di Collodi, scrive:

             È troppo chiedere che al lettore, nella libertà alla quale ha pieno e totale diritto, sia dato accostarsi all’opera di un autore, chiunque sia, sostanzialmente in condizione di parità; quanto dire nel rispetto di quella libertà alla quale chi ha scritto ha – o almeno avrebbe- diritto quanto lui?

Quello che hanno in comune queste due frasi è presto detto: Tempesti si premura di suggerire al lettore una prudenza nell’interpretazione di Pinocchio di Collodi perché sa benissimo che, con Pinocchio, i lettori di questo meraviglioso capolavoro si stanno per imbattere in un vero e proprio Mito, una creazione della immaginazione umana che genera, lungo la sua tradizione, un’inarrestabile ed infinita catena di interpretazioni.

È questa la grandezza di Collodi e del suo Pinocchio, quella di aver creato una piattaforma su cui generare la tendenza all’interpretazione più ossessiva: infatti, già dai primi del Novecento, non c’è testo che ha conosciuto una tale sfrenata, incontrollata e spesso sregolata serie di interpretazioni. Questo perché in Pinocchio traspare limpidamente che interpretare un testo significa comprendere più a fondo quel rapporto tra lo spirito e il mondo di cui parla Lévi-Strauss: tutti i lettori di Pinocchio hanno compreso che nella sua fiabesca storia di redenzione, così elementare e stilizzata, c’erano elementi di una Struttura Originaria che li accomunava tutti.

E tutte le interpretazioni che Pinocchio ha avuto in questi 125 anni e più, da quella del Cardinale Biffi, che vi vedeva una trasposizione esoterica del vecchio testamento, a quella marxista e storicista di Alberto Asor Rosa, a quella di Emilio Garroni, portano con sé la volontà di arrivare a questa origine.

Ma fra le convulse nervature di questa selva emeneutica, di questa foresta di interpretazioni che vogliono Pinocchio archetipo di una natura viva e indomabile, fonte inarrestabile di creatività immaginativa, traspaiono senza dubbio delle costanti che, proprio per l’infinita carica mitopoietica di Pinocchio, possono raccontarci la storia della nostra cultura dal punto di vista del Mito.

Spieghiamoci meglio: il Cardinale Biffi, dicevamo, ruppe con l’interpretazione classica filo-risorgimentale di Pinocchio, che lo vedeva come un’espressione

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dei valori propugnati da D’Azeglio e Mazzini, per intravederne una inconscia trasposizione della parabola di redenzione di cui è imbevuta la cultura biblica, vedendo nelle figure fiabesche evocate dalla storia altrettanti leitmotiv, in chiave profana, dell’eterno teatro dell’umana salvezza: La fata turchina è l’intervento di Dio, Lucignolo è la “perdizione” e così via; Asor Rosa ne vide, nel modo più sistematico di tutti, un tentativo, tramite la maschera del fiabesco, di educare gli Italiani alla cultura borghese: ne vide un grande tentativo di mediazione socio-culturale fra la classe contadina e quella urbana, che si voleva far carico dell’identità nazionale. Infine c’è l’interpretazione di Garroni che attraverso una penetrante requisitoria narratologica entra nella struttura nervosa del testo mostrandone le più profonde in-coerenze ed arrivando ad affermare che il testo era prima di tutto la rappresentazione dell’anima di un uomo, stretta fra diverse istanze sociali, psicologiche e antropologiche.

Sono solo pochi esempi: ma il punto è che, a prescindere da quanto la libertà dell’interprete possa avvicinarsi alla libertà dell’autore, tutte queste letture di un classico immortale ci rivelano che la storia della cultura è anche una lotta per la coscienza e per l’identità che ruota a torno a dei manufatti letterari, a dei miti. Come accade per i Promessi sposi, anche per Pinocchio, le letture si accavallano perché stimolano l’immaginazione e la ridefinizione della nostra stessa immagine sociale (risuonano qui, inevitabilmente le parole di Lévi-Strauss) che proprio, potremmo dire, si ristruttura dialetticamente sulla base delle metafore di cui si nutre.

Pinocchio metafora grottesca dell’esclusione sociale del mondo contadino, Pinocchio tropo stesso dell’impossibilità di definire l’Io del soggetto se non in una condizione di opposizione radicale al mondo circostante; Pinocchio essenzialmente folgorante opera letteraria, miracolo di prosa, che unisce un equilibrio sobrio e quasi classicheggiante con squarci potentissimi su un immaginario fiabesco etereo, sublime e violento al tempo stesso; in grado di trasfigurare, attraverso lo scenario della fiaba e l’intarsio fra i mondi di fiaba e la povertà dei paesi contadini, quella certa qual crudeltà che sembra emergere dalla natura bella indifferente della Toscana. Questa capacità evocativa fa si che Pinocchio sia per la letteratura un po’ quello che le istallazioni di Kounellis sono per la scultura: un fondo dorato ed etereo (fiabesco) squarciato dal crudo realismo del romanzo popolare.

A prescindere da queste suggestioni, a questo punto, cosa rimane della sfuggente identità del papà di Pinocchio, che non era mastro Geppetto, ma Carlo Lorenzini, detto Collodi?

Questa è una risposta molto difficile da dare, non solo perché le notizie sulla sua biografia, anche qualora siano significative, come nota Tempesti, rispetto ad altri autori sono poche e manchevoli. La critica recente, consacrandolo di fatto come uno degli scrittori dalla prosa più solida e vitale nel secondo Ottocento italiano, lo inseriscono nelle fila dell’eredità di Lawrence Sterne, celebre autore che ideò quella che Giancarlo Mazzacurati chiamava la linea “umoristica” del romanzo europeo. Ma dilungarsi in queste classificazioni critiche è ora forse superfluo: quello che forse val la pena affermare è che la foto mossa di questo grande scrittore, nascosta e a volte eclissata dal burattino di legno, rende Collodi il correlativo storico dell'altrettanto sfuggente suo figlio letterario Pinocchio, irriducibile discolaccio che vuol diventar bambino di cui, a quanto sembra aver deciso la Storia, siamo un po’ tutti fratelli.

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