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Cambiare per non morire: la scissione che può salvare il PD (e la sinistra)

Scissione o meno, finalmente si arriva al punto: questo PD non è in grado di affrontare le sfide della contemporaneità, né di dare una risposta concreta alla “minaccia populista”. Che se ne esca al centro o a sinistra, la posta in palio è altissima. E che in un momento del genere si rompa sulla data del Congresso è piuttosto ridicolo…
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renzi bersani

È tornata la Prima Repubblica, dice Matteo Renzi aprendo la sua ultima relazione da segretario del Partito Democratico, quasi a ricondurre in una dimensione nota, quella del "già visto", le fibrillazioni interne. Un'idea che in molti condividono, probabilmente per esorcizzare lo spettro di una scissione traumatica ma, tutto sommato, inevitabile.

Ci sono scissioni a destra e a sinistra, incoraggiate dal proporzionale, che tutela la rappresentanza ma rende "indolore" la frammentazione degli schieramenti politici. Ma c'è anche lo spirito dei tempi, con le sue implicazioni devastanti per la coscienza occidentale e la sua residua inafferrabilità.

C'è la subalternità della politica ai processi economici, che in Italia diventa sottomissione alla logica del fare e distorsione delle pratiche amministrative, ormai mera gestione e tutela di gruppi di interesse. C'è l'equivoco del post ideologismo, che permette, per esempio, a Renzi di sostenere che "abbassare le tasse" è di sinistra, che la "sicurezza" non è valore della destra e che il reddito di cittadinanza è concettualmente lontano dalla piattaforma del Partito Democratico.

C'è la crisi della cultura progressista, l'imbuto del riformismo, la contestazione radicale dei principi liberali, il nichilismo che diventa "rossobrunismo". C'è la conversione di rabbia e insofferenza in progetti politici che del populismo hanno la tendenza a enfatizzare egoismi e paure, più che partecipazione e condivisione. C'è lo scarto fra le potenzialità e le possibilità che la contemporaneità offre agli individui e la tremenda realtà delle esistenze individuali, fatta di esclusioni e fallimenti, di insoddisfazione e alienazione.

C'è, per tornare al PD, la perdita di senso e ragione del progetto progressista e riformista, alla luce dei cambiamenti epocali che stiamo vivendo. O meglio, c'è un modello che non tiene più, né sul piano del consenso, né su quello della capacità della classe dirigente di incidere sui processi. Tutte questioni che, nessuno se ne abbia a male, trascendono Renzi, la minoranza e le diatribe interne al PD.

Ecco, a mio parere, una cornice del genere è fondamentale per capire cosa sta succedendo in queste settimane e per ricondurre anche le tensioni interne al PD a quello che sono: non (solo) una guerra personale / di corrente, non (solo) un braccio di ferro fra opposte visioni del Partito, non (solo) l'atto finale di uno scontro cominciato anni fa, ma anche e soprattutto la certificazione dello stato confusionale in cui versa "il più grande partito di centrosinistra d'Europa".

Che scopre l'inevitabile, ovvero il "cambiare per non morire", nel modo più traumatico: la palude politica e la prospettiva dell'ininfluenza, causata dalla perdita di consenso o anche dalla necessità eterna delle larghe intese. Ma si divide sulle ricette per il futuro: da una parte un riformismo moderato nella sostanza e rottamatore nella comunicazione, che detesta i tempi lunghi della politica e del confronto interno, e ha nel leaderismo del fare la risposta alla "minaccia populista"; dall'altra la coscienza della sinistra socialdemocratica, che ha scoperto i guasti della globalizzazione con qualche anno di ritardo e cerca, ancora confusamente, di ripartire dalle basi per ripensare il proprio ruolo nel Paese.

Entrambe le fazioni concordano su un punto: la piattaforma politica del PD, quella di dieci anni fa, non è in grado di reggere la sfida dei prossimi anni. Lo spirito del Lingotto, che Renzi richiamerà più per ragioni di marketing politico che per altro, è un lontano ricordo e quel movimento inclusivo e aperto alle sfide della modernità si è trasformato, certo nella sentinella del sistema politico istituzionale italiano e nell'unico partito realmente contendibile, ma anche nella roccaforte dei notabili della politica, dei signori delle tessere e delle correnti, finendo con il doversi aggrappare al consenso personale del leader (e subire il conseguenze delle sue scommesse).

Che poi la rottura vera e profonda avvenga sulla data e la durata del Congresso, è una questione sulla quale qualcuno farebbe bene a riflettere sul serio.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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