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Covid 19

Il fisico Bassi: “Dati imprecisi, controlli scarsi: riaprire tutte le Regioni è un atto di fede”

Alla vigilia della riapertura dei confini regionali, in molti si interrogano sulla bontà dei dati sull’andamento del contagio raccolti dalle regioni per giustificare questa scelta. “È come chiedere all’oste se il vino è buono”, dice a Fanpage il professor Davide Bassi, fisico ed ex rettore dell’università di Trento, che qualche settimana fa aveva scovato una clamorosa “svista” nei numeri trasmessi a Roma dal Trentino. E sul monitoraggio dell’Iss, Bassi dice: “Troppo peso al Rt, in Germania i numeri che contano sono altri”
A cura di Marco Billeci
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Nell’arco di 24 ore il 4 maggio scorso, il Trentino è passato da essere una delle aree con la più alta incidenza di contagi da Covid a una di quelle con i numeri più bassi. Non si trattava, purtroppo, di una svolta miracolosa ma del frutto di un clamoroso “fraintendimento” da parte del governo regionale circa la nuova metodologia con cui fornire i dati a Roma per il monitoraggio della fase 2 dell’emergenza. In pratica, mal interpretando le direttive del ministero della Salute, la giunta Fugatti ha cominciato a inviare i numeri solo sui nuovi casi con sintomi insorti negli ultimi 5 giorni, abbassando così di molto il numero dei contagi.

Questo episodio è diventato l’emblema dei problemi e delle carenze nella raccolta delle informazioni che dovrebbero alimentare il sistema messo a punto per tenere sotto controllo il virus, dopo l’uscita da lockdown. Ad accorgersi del problema è stato il professor Davide Bassi, fisico, ex rettore dell’università di Trento che sul suo blog analizza i numeri dell’emergenza.

La regione però non ha fatto una piega – spiega Bassi a Fanpage.it – e ha continuato a mandare i dati così come se li era inventati. Le statistiche del Trentino nel bollettino della Protezione Civile sono ancora tutte sballate”. Racconta il professore: “Un giorno hanno fatto sparire di punto in bianco circa 500 guariti  perché il numero dei guariti aveva superato quello dei contagiati, follia pura”. “Se questo è accaduto qui – dice Bassi -, in una terra che ha la fama di essere abitata da persone precise e puntuali, non oso pensare cosa possa essere successo in altre regioni”.

Il governo si sta basando sui numeri del sistema di monitoraggio per decidere le riaperture, da ultimo quelle dei confini regionali. Secondo lei queste informazioni sono sufficientemente affidabili?

In realtà è un atto di fede, perché i controlli sulla qualità dei dati accumulati dalle diverse regioni sono stati scarsi. Il problema è che non avevamo un sistema di raccolta dati preparato prima dell’epidemia, lo abbiamo dovuto mettere in piedi in fretta e furia, con grandi difficoltà. La frammentazione regionale ha moltiplicato i problemi perché ciascuno fa a modo suo. Ancora oggi manca una struttura centrale del ministero della Salute in grado di dare linee guida precise e controllare che siano eseguite, correggendo e sanzionando i comportamenti inappropriati.

A proposito della raccolta dei dati lasciata in mano alle regioni, lei ha detto che è un po’ come chiedere all’oste se il vino è buono

È naturale che ci sia una tendenza da parte delle giunte regionali a presentare un quadro il più possibile positivo della situazione sul proprio territorio. Le contrapposizioni tra governo e regioni di colore politico diverso poi aumentano la confusione. In Italia abbiamo visto dare un colore politico persino ai farmaci e alle cure, un’assurdità, e lo stesso vale per i numeri.

Insomma, servirebbe una regia che per ora non c’è?

Siamo alla mercé degli assessori alla Sanità che decidono un po’ cosa fare. Il rischio è che si ripetano gli errori dell’inizio dell’epidemia. Certo, qualcosa di positivo è stato fatto, come il rafforzamento dei posti in terapia intensiva, ma monitorare la situazione è fondamentale. Purtroppo, qui non abbiamo un'istituzione come il Robert Koch Institut tedesco che ha gestito il processo di raccolta dei dati in modo centralizzato, non improvvisato, affidandolo a specialisti del settore.

In Italia, invece, cosa succede?

Noi abbiamo addirittura due sistemi di analisi delle informazioni diversi e in concorrenza tra loro, un po’ come carabinieri e polizia. Uno è quello che fa capo al ministero della Salute ed è sintetizzato giornalmente dal bollettino della Protezione Civile. L’altro è quello dell’Istituto Superiore della Sanità, condensato nel report settimanale sul monitoraggio del contagio. Invece di due sistemi che fanno acqua, sarebbe meglio per il futuro averne uno solo che funziona.

Nel suo blog, lei sottolinea anche alcune criticità nel modo in cui l’Iss presenta i dati del monitoraggio settimanale

Sì, innanzitutto non comprendo la scelta di non evidenziare il numero dei tamponi effettuati, perché senza questa informazione è difficile capire la reale incidenza del virus. Nelle ultime tre settimane il Trentino è stato sopra la Lombardia per numero di nuovi contagi. Ma se si va a vedere quanti tamponi diagnostici – quelli utili per cercare la malattia – sono stati fatti per numero di abitanti, si scopre che in Trentino sono tre volte in più che in Lombardia. Se non si sottolinea questo fattore, si incentivano le autorità locali a non testare, perché così l’epidemia sparisce. Al contrario, il ministero avrebbe dovuto definire una strategia molto più precisa alla quale le regioni si dovrebbero attenere, per fare molti tamponi, in modo rapido e intelligente.

C’è altro che non la convince nei report dell’Iss?

Dopo il discorso diventato popolare sul web in cui Angela Merkel spiegava l’Rt (la stima sul numero medio di persone che ogni malato può contagiare), molti nostri politici hanno voluto fare i piccoli Merkel e si sono innamorati di questo parametro, facendo anche delle brutte figure, come quella dell’assessore lombardo Gallera. Il motivo è che all’apparenza l’Rt è un concetto molto semplice per descrivere in maniera sintetica un processo complicato come quello dell’epidemia. In verità, questo dato ha un valore pieno quando l’epidemia è al suo apice. Quando invece ci sono pochi casi a settimana in una regione, parlare di Rt non ha più senso perché i numeri sono così piccoli che l’indeterminazione associata a questa stima diventa talmente grande da fargli perdere significato. Invece, le regioni continuano a rinfacciarselo tra loro: tu hai l’Rt più alto del mio, io ce l’ho più basso. Fesserie totali.

Anche l’Iss però ha affermato più volte la centralità del Rt

E ha sbagliato, infatti ho visto che nell'ultimo report sono stati più prudenti. La settimana scorsa hanno fatto un pasticcio assurdo descrivendo la Valle d’Aosta come il pericolo pubblico numero uno, anche se non era vero. Ora il Molise ha un Rt di circa due, riferito a pochi casi di venti giorni fa, e sono stati tutti zitti, forse hanno imparato la lezione. Un altro problema, è che l’analisi pubblicata in queste ore si riferisce ai dati del dieci di maggio. È poco utile ai fini pratici sapere ora qual era il tasso di trasmissione il dieci di maggio. In Germania, l’Rt è calcolato con una tecnica molto più efficace della nostra, chiamata Nowcasting, che permette di avere un ritardo di non più di 4 o 5 giorni nella stima rispetto alla situazione reale. Inoltre, l’Rt è stimato su scala nazionale, non per le singole regioni, ottenendo così risultati più robusti e con meno fluttuazioni.

Ma in questo modo come si fa a capire la situazione dei singoli territori?

Il Robert Koch ogni giorno dà differenti stime aggiornate su base nazionale del Rt. Va ricordato, infatti, che questo numero non è una misura, ma una stima e quindi può essere calcolato in modi diversi, con risultati differenti. Inoltre l’istituto presenta una mappa dettagliata della Germania, con la densità nelle diverse zone dei nuovi casi per settimana. Questo è considerato il parametro fondamentale, se si superano i 50 nuovi casi per settimana ogni 100mila abitanti scatta la zona rossa. Per capirci, l’incidenza attuale in Lombardia, pur con un numero limitato di tamponi, è ancora di 16 casi per 100mila abitanti. Poi uno si domanda perché la Svizzera ha chiuso i confini con l’Italia fino a luglio, basta vedere quei numeri lì.

Lei ritiene che il nostro sistema di monitoraggio con ventuno indicatori sia troppo complicato?

Quel modello non è sbagliato in linea di principio, però ce lo siamo inventati all’ultimo minuto, va testato e raffinato con il tempo per sapere che peso dare ai singoli parametri. È come se io avessi davanti a me il cruscotto di un aereo con 21 numeri, devo decidere quali quadranti guardare per capire se l’aereo sta precipitando oppure no. Per cominciare, si potrebbe mettere al margine del pannello il dato del Rt e al centro il numero dei nuovi casi per 100mila abitanti e quello dei tamponi fatti. Ci sono poi gli indicatori sul sistema sanitario – posti letto, terapie intensive etc – che per ora, nella fase calante dell’epidemia, possiamo guardare poco, ma diventeranno importanti in caso di seconda ondata.

C’è il rischio che un sistema di monitoraggio così complesso possa alla fine portare a sottovalutare o comunque mitigare i dati negativi?

Io non mi posso esprimere su interpretazioni maliziose. Dico solo che se avessimo copiato il sistema tedesco, avremmo fatto meglio. C’è anche da dire che in Germania il Robert Koch si occupa da sempre specificatamente di malattie infettive e fa solo quello, quindi è stato più pronto per controllare l’andamento del virus. L’Iss è altrettanto prestigioso, ma si occupa di tutto, dai tumori all’inquinamento. Per il futuro, quindi, va quantomeno potenziata la sezione dell’istituto che si occupa specificamente d’infettivologia dandogli gli strumenti e le risorse necessarie.

Insomma, anche per quanto riguarda la rilevazione dei dati del contagio è mancata la prevenzione?

Quello che è successo con l’epidemia mi ricorda i tempi di Chernobyl, quando abbiamo svuotato i cassetti dei laboratori per cercare i contatori geiger che nessuno usava più. La rete di rilevazione della radioattività messa su nel dopoguerra, infatti, era stata smantellata dopo che gli esperimenti nucleari erano stati banditi e si dovette recuperare in fretta e furia. Oggi quella rete è di nuovo a disposizione, anche se di Chernobyl non ce ne sono state altre. Un Paese moderno dovrebbe avere questi margini di sicurezza, anche se la prevenzione costa. Un alto funzionario della sanità mi ha spiegato che da gennaio si conosceva il rischio che il Coronavirus arrivasse in Italia, ma non ci si è attrezzati per tempo perché se poi ciò non fosse successo, si correva il rischio di essere denunciati per danno erariale. Un Paese che ragiona così non ha speranza.

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