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All’ergastolo per aver ucciso il marito con una flebo avvelenata: ora lavora in Procura

Lucia Bartolomeo, l’infermiera condannata all’ergastolo per aver ucciso con una flebo avvelenata il marito Ettore Attanasio, per poter stare con l’amante, oggi lavora in Procura. La 44enne ha beneficiato della Legge sull’Ordinamento penitenziario per cui, dopo dieci anni di carcere, il detenuto può cominciare a lavorare all’esterno. Ne ha scontati 13. Lucia lavora negli uffici della Procura di Lecce, la stessa che indagò sul suo caso.
A cura di Angela Marino
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Esce dal carcere dopo quasi 13 anni di detenzione per lavorare in Tribunale. Lucia Bartolomeo, 44 anni, l'infermiera pugliese condannata all’ergastolo, con sentenza definitiva, per aver ucciso il marito Ettore Attanasio, con una flebo drogata, potrà lavorare fuori dal carcere. La donna, infatti, ha potuto beneficiare della legge sull’ordinamento penitenziario che consente ai detenuti di lavorare fuori dal carcere avendo scontato, almeno, dieci anni di detenzione. Lucia, che è stata condannata per aver iniettato al marito una dose letale di eroina, farà fotocopie proprio negli uffici della Procura di Lecce, che all'epoca indagò sulle sue responsabilità.

L'omicidio di Ettore Attanasio

Il caso salì agli onori delle cronache nel 2006, dopo che la morte di Ettore Attanasio, fabbro di 34 anni spirato nella casa in cui viveva a Taurisano con la moglie e la figlioletta, la mattina del 30 maggio, fu riaperto dopo un'iniziale archiviazione per morte naturale. A gettare sospetti sulla vicenda era stata una infermiera del 118 che ai colleghi che tornavano da Taurisano, dopo aver accertato la morte di Attanasio, disse che del presunto tumore di cui avrebbe sofferto l'operaio, non c'era alcuna diagnosi documentata. A seguito di un esposto, dunque, il cadavere di Attanasio fu riesumato e sottoposto per la prima volta ad autopsia ed esame tossicologico.

L'eroina iniettata nelle vene

Nel corpo dell'operaio i medici trovarono tracce di una dose di circa 70 mg di eroina, una quantità massiccia che, secondo gli addetti ai lavori, ne aveva causato la morte nel sonno. I sospetti caddero immediatamente sulla moglie infermiera del 34enne che proprio nei giorni che avevano preceduta la tragedia stava somministrando al consorte delle flebo. Bartolemeo, che all'epoca lavorava in una casa di cura per malati mentali, venne dunque indagata per aver somministrato al marito farmaci che lo stavano avvelenando e successivamente arrestata con l'accusa di omicidio.

Gli sms all'amante: "Questione di ore"

Movente del delitto sarebbe stato il desiderio di liberarsi del marito per potersi rifare una vita con l'amante, il collega Biagio Martella, senza dover rinunciare all'affido della figlioletta e senza perdere alcun beneficio economico. A corroborare l'accusa al processo saranno, tra l'altro, i messaggi mandati dalla donna all'amante. Già alcuni mesi prima del decesso, la donna riferiva all'amante di un crescente malessere fisico del marito, culminato, secondo i messaggi mandati dalla Bartolomeo al Martella, la notte del 30 maggio, quando il marito sarebbe sprofondato in uno stato di pre-coma. "Questione di ore", scriveva Lucia all'amante, mentre il marito moriva nel sonno.

La condanna all'ergastolo

Per Bartolomeo, la condanna confermata dalla Cassazione per l'accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dall'aver agito col mezzo di sostanze venefiche e nei confronti del coniuge, è stata ergastolo. Ben oltre le richieste della procura che, per l'infermiera di Lecce, aveva chiesto invece 24 anni di carcere. Dopo la condanna, Lucia Bartolomeo ha perso la patria potestà sulla figlia, alla quale ha dovuto versare un risarcimento come parte lesa nel processo sull'omicidio del marito. Continua a professarsi innocente.

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