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“La giornata mondiale della poesia”. Ma dove brucia il sacro fuoco della poesia?

Oggi, 21 Marzo, l’UNESCO celebra “la giornata mondiale della poesia”, ma qual è lo statuto di quest’arte antichissima oggi? Dare una risposta è difficilissimo. Senza dubbio è una delle arti più nobili, eppure in grande crisi.
A cura di Luca Marangolo
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C’è un celebre paragone di Roman Jakobson sul senso dello scrivere poesia:

In Africa un missionario rimproverava i suoi fedeli perché andavano nudi.  “E tu” ribatterono loro indicando il volto “non sei anche tu nudo da qualche parte?” “certo, ma questo è il volto”, si giustificò il missionario. Al che gli indigeni risposero: “ Si, ma in noi dappertutto è il volto”

(Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale).

La poesia, per Jakobson, è una scrittura che nasce dalla presa di coscienza che, nel linguaggio, “tutto” può essere “volto”,  tutto è fine alla rappresentazione, all’espressione di sé. Ne consegue che il poeta deve, attraverso una disciplina ed una ricerca personali, cercare di prestare attenzione ad ogni minimo dettaglio, ogni cosa connota ciò che vien detto, dalla virgola più insulsa alla frase più eclatante. L’attenzione al dettaglio è massima. È questo, per Jakobson, ciò che definisce la scrittura poetica.

Evocativo è il paragone di Valèry, per il quale se prosa è una marcia, la poesia è come la danza. Ciò che dovrebbe distinguere la poesia è, insomma, una disciplina (per Valèry una disciplina inttellettuale, espressione del pensiero prima di tutto) simboleggata magari dal ritmo dei versi, il cui fine ultimo sia plasmare al meglio il linguaggio.

Ma plasmarlo per quale ragione? Si diceva prima, per l’espressione. Nella distinzione fra i generi letterari la poesia è quella che più è centrata sull’’io’, sul espressione di ciò che è personale. C’è, insomma, l’idea che ci sia qualcosa di unico, qualcosa di assolutamente individuale, in definitiva qualcosa di ‘autentico’, nell’usare un termine invece che un altro, nel trasformare il linguaggio in “volto”.

Wislawa Szymbroska

La giornata internazionale della poesia è un’iniziativa promossa dall’UNESCO, ormai dal 1999, per promuovere la poesia in quanto  ha “un ruolo privilegiato nella promozione del dialogo e della comprensione interculturali, della diversità linguistica e culturale e della pace”. Sulla potenzialità della poesia di promuovere questi valori sovranazionali c’è da sottoscrivere queste parole, se si pensa solo, ad esempio, che molti miti, molti valori, molti monumenti culturali sono stati creati attraverso la poesia e, poi, sono diventati internazionali.  Se questo è vero, c’è però da chiedersi, nella giornata internazionale dedicata a questa forma d’arte, come mai, ed è un fatto storico, proprio la poesia che può avere un ruolo così importante, non ce l’ha nella realtà.

Non c’è nulla da fare, è questa la domanda più ineludibile, pià necessaria ed importante, che continuerà a porsi chi si interessa alla poesia. È un fatto storico che la poesia è essenzialmente poco letta, poco considerata, e la maggior parte dei lettori e dei consumatori di poesia aspirano a diventare loro stessi poeti, versificatori. Ci sono dei poeti che ottengono un successo planetario grazie alla vittoria di un premio, come  Wislawa Szymbroszka, la quale oggi conosce una notorietà pari al suo talento. Eppure proprio una famosa poesia ironica della Szymbroska è rivelatrice:

“ad alcuni piace la poesia”

“Ad alcuni –
cioè non a tutti.
E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.
Senza contare le scuole, dove è un obbligo,
e i poeti stessi,
ce ne saranno forse due su mille.

Piace –
ma piace anche la pasta in brodo,
piacciono i complimenti e il colore azzurro,
piace una vecchia sciarpa,
piace averla vinta,
piace accarezzare un cane.

La poesia –
ma cos'è mai la poesia?
Più d'una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
Come alla salvezza di un corrimano.”  (Wislawa Szymbroska,  La fine e l'inizio, Schwiller editrice, Milano, 1997. Trad. It. Pietro Marchesani)

A questo punto è necessaria una precisazione. C’è una retorica implicita, inconscia, da cui è necessario rifuggire: la poesia non è in crisi, si crede, perché i lettori hanno smesso di leggerla: o meglio questa è solo la causa molto superficiale, né si potrebbe dare la colpa a chi le poesie le scrive, protestando l’inattualità di un poeta o di un autore. Anche questo sarebbe superficiale, sarebbe eccessivamente semplificatorio, dato che le nuove generazioni continuano, bene o male, a scriverne quanto le vecchie. Una possibilità, forse, è che la poesia è in crisi essenzialmente come forma, come quella forma che privilegia, che mette al centro, l’espressione dell’io: l’idea radicale e fondamentale che ci sia una verità, in una foresta di simboli, in grado di emergere dall’espressione di sé.  Il paradosso nel quale si troverebbe l’espressione poetica oggi sta nel fatto che è presente questa istanza poetica, in tutti, i poeti e i lettori, questo bisogno di qualcosa che sia autentico e necessario, ma che questa istanza intima sia quanto di più relativo ci sia.

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Il riflesso di questa cosa lo si vede chiaramente nella storia della poesia, nella sua evoluzione formale: fra il Settecento e l’Ottocento vengono meno convenzioni secolari, Leopardi introduce l’endecasillabo sciolto, la metrica e la versificazione aderiscono sempre più nettamente ad una sorta di scansione del vissuto,  fino al Novecento. Si veda l’esempio più ovvio: “Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi le foglie” di Ungaretti. Il precipitare della poesia verso la sua crisi è dunque  la comprensione che la maggiore libertà dell’io del poeta corrispondeva alla sempre più chiara relatività di ciò che relativo, almeno in teoria, non dovrebbe essere: ovvero l’autenticità, l'unicità di chi scrive. E questo sembra essere lo stato presente, l’assenza di un centro, dovuta al disgregarsi di una vero statuto della forma poetica. I poeti sono sempre più degli intellettuali appartati, che condividono con pochi il loro lavoro e magari si affacciano nei Talk Show o tramite altri canali istituzionali, come è quello, importante, della giornata mondiale della poesia di oggi.

 Se però questi sono i fatti storici, rimane del margine per qualche altra osservazione. La crisi della poesia come forma,  paradossialmente, nasce dalla sempre più ingente ‘richiesta’ di poesia, ove si usa questo termine nell’accezione più vasta e meno formale, richiesta di senso poetico, cui spesso e sempre di più sopperiscono altre forme, come la musica pop o d’autore, come altri modi di scrittura. Accade insomma che in questo momento di relatività, in cui, giustamente, è difficile definire ciò che è poetico o no, altre forme che non avevano alla loro origine il mandato, tutto moderno, di essere ‘radicalmente autentiche’ possono comunicare con più faciltà questo senso di autenticità. In modo meno ricercato, forse, ma praticamente con la stessa dignità.

Quando la Szymbroska, dunque, dice di ‘aggrapparsi’ all’incertezza su cosa sia la poesia, non fa altro che tener fede al principio base, secondo noi, che può ispirare la produzione poetica: e cioè che di fondo c’è questo senso di autenticità che guida l’espressione, e chi si avvicina alla poesia, ai versi, lo fa come chiunque altro senta di dover demandare all’arte questo bisogno a cui la poesia, in quanto forma, per prima ha tentato nella storia di rispondere nel modo più radicale. Al di là di ogni altra considerazione possibile.

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