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I criminali in divisa colpiscono, nelle missioni di pace come in guerra

La chirurgia lessicale va di pari passo con le operazioni “chirurgiche” che scaricano bombe e causano “effetti collaterali”. Tra questi, anche la compera del sesso del civilissimo, pacifico occidente.
A cura di Giulio Cavalli
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Ci sono notizie che scivolano fluide e silenziose senza nemmeno il rumore delle gocce. Chissà perché. Ad aprile un magistrato francese ha avviato un’indagine preliminare per i presunti abusi sessuali contro minori di quattordici soldati francesi (in missione per conto de l’ONU) tra il dicembre del 2013 e il giugno del 2014 in un centro per sfollati nell’aeroporto di M’Poko, nella capitale Bangui. I caschi blu francesi si trovavano nella Repubblica Centrafricana per proteggere i civili e per provare a rimettere ordine nel paese dilaniato tra gli ex ribelli musulmani Séléka e il gruppo dei miliziani cristiani anti-balaka: erano lì per esportare pace. L’ONU ha reagito sospendendo il direttore delle operazioni di terra per l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, Anders Kompass, per avere diffuso un documento interno. Nelle guerre moderne è fondamentale la narrazione: sinonimi igienici (tra “le esportazioni di democrazia” e gli eventuali “danni collaterali”) per fare la guerra senza la forma e senza gli odori delle guerre. Chirurgia lessicale per legittimare l’orrore.

In questi giorni circola un rapporto dell'Oios (i servizi di investigazione interna dell'ONU) datato 15 maggio che fotografa la serialità del sesso comprato a poco dai soldati in “missione di pace”. Si legge infatti che: “Le prove emerse in due missioni di peacekeeping dimostrano che le richieste di prestazioni sessuali sono piuttosto comuni ma tenute sotto traccia”. Nessun caso isolato, quindi: 480 denunce di abusi sessuali tra il 2008 e il 2013, soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, in Liberia, Haiti, Sudan e Sud Sudan, senza contare i casi non denunciati per paura e per guadagno. Un esercito (ma davvero) di affamati occidentali in cerca di carne fresca con la bava alla bocca sotto l'ombra della bandiera della pace. Ad Haiti 231 persone hanno confessato di avere avuto rapporti sessuali in cambio di «gioielli, scarpe, vestiti, biancheria intima, profumi, cellulari, televisioni e, in alcuni casi, laptop». A Monrovia un quarto della popolazione femminile ha avuto “scambi” sessuali con i peacekeepers. E non solo: secondo il rapporto anche i civili impegnati nelle missioni avrebbero contribuito notevolmente in questa pratica di prepotenza e bava, il 33% delle denunce infatti si riferisce a personale non militare (che è solo il 17% nel totale di uomini impegnati).

In un Paese normale dei numeri del genere accenderebbero subito un'indignazione popolare. Ma di quelle vere, fatte di domande che non possano essere eluse e responsabilità che assumono un nome ed un cognome. La guerra oggi è un esercizio di finezza lessicale e l'uso della parola è diventato prioritario. Qualche giorno fa, parlando con Cecilia Strada (Presidente di Emergency) mi disse una frase che mi colpì: Il controllo della parola – mi disse – è un nodo cruciale, l’ho visto spesso anche nel racconto della guerra come sono cambiate le parole negli ultimi 15 anni: la parola “guerra” fa schifo solo a pronunciarla e allora per convincere gli elettori che sia buona e giusta, devi cambiarla. Nella Seconda guerra mondiale – ha aggiunto – si diceva “il bombardamento su Dresda”, oggi invece si parla di “supporto aereo ravvicinato” che è sempre un bombardamento ma suona molto più elegante e molto meno minaccioso. Non evoca Dresda che brucia o la scuola di Gorla che viene giù. Il “supporto aereo ravvicinato” suona quasi come un aiuto, è una gentilezza e così la guerra è diventata “umanitaria”; i civili ammazzati sono “effetti collaterali”. Mi ricordo un ministro [l’ex ministro della Difesa Mario Mauro, Nda] che ha definito i cacciabombardieri F35 «strumenti di pace».

Il civilissimo occidente che instaura pace comprandosi sesso con qualche ammennicolo ci riporta alle vecchie storie degli esploratori che ammaestravano una tribù con qualche collana di perline, quelle storie che ci raccontavano da bambini oppure quegli occhi in giro per il mondo che brillano dentro qualche baraccopoli davanti alla maglia di una squadra di calcio italiana. Vi ricordate come sorridevamo pensando che fossero una storia lontana nel tempo e per geografia? Ecco: la favoletta è tornata. Solo che lo stemma è quello della più importante comunità internazionale e noi siamo il silenzio tutto intorno. In attesa di un comitato di liberazione internazionale delle parole anastetizzanti.

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