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Opinioni

Tfr in busta paga: quanto costerà e a cosa servirà

Il Tfr in busta paga potrebbe non costare alle aziende e contribuire a far crescere i consumi. Ma in cambio di una maggiore tassazione del risparmio. Così il paese rischia di divorare il proprio futuro per cercare di sostenere un incerto presente…
A cura di Luca Spoldi
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Riassunto delle puntate precedenti: l’Italia si trova in crisi, da anni. Dal 1999 a oggi la crescita media del Pil è stata pari allo 0,3% annuo. Il debito/Pil è arrivato ad oltre il 130% e crescerà (quest’anno e il prossimo) del 4,7% l’anno secondo la nota correttiva al Def, il deficit/Pil nei primi sei mesi dell’anno è già risultato pari al 3,8% (contro un limite del 3% previsto dal Fiscal Compact), ergo senza crescita del Pil siamo destinati a veder peggiorare ancora i nostri rapporti. Siamo in una “trappola della liquidità” in cui pur con tassi virtualmente a zero le maggiori banche non chiedono soldi alla Bce né ne concedono ai loro clienti (che invece pagano tassi d’interesse in alcuni casi poco sotto i livelli-soglia dell’usura). Servirebbe un alleggerimento della repressione fiscale e qualcuno se ne sta accorgendo, non solo premi Nobel per l’economia come Paul Krugman e Joseph Stiglitz.

Ciò detto, una misura come la possibilità per i lavoratori dipendenti di richiedere il “Trf in busta paga” quante possibilità ha di stimolare la crescite e a che prezzo? Secondo una bozza di ddl che circola in queste ore, in attesa della sua pubblicazione ufficiale, una volta presentata la richiesta sarà irrevocabile fino al 2018 e l’importo sarà assoggettato a tassazione ordinaria. La norma, che consente secondo il governo consentirebbe “di avere il Tfr” che si matura nel corso dell’anno in busta paga “con zero costi per le imprese” (e al costo indicato di 100 milioni di euro per lo stato), scatterebbe per le retribuzioni dal primo marzo 2015 al 30 giugno 2018, data coincidente con la scadenza delle Tltro della Bce (le operazioni di rifinanziamento a lungo termine dalla Bce alle banche europee, “vincolate” all’incremento dei prestiti alle imprese).

Esclusi da questa possibilità rimarrebbero i lavoratori pubblici, quelli domestici e quelli del settore agricolo, cosa che riduce la platea dei soggetti da 12 milioni potenziali a circa 6,6 milioni di lavoratori. Ridurre la platea di beneficiari ridurrà l’impatto di questa misura in termini di potenziale incremento dei consumi e dunque del Pil (che per il 70% dipende proprio dai consumi).  In compenso il fatto di sottoporre a tassazione ordinaria le somme che eventualmente i lavoratori chiedessero di farsi accreditare in busta paga se da un lato appare inevitabile (come si potrebbe altrimenti distinguere tra il reddito da tassare in modo “ordinario” e quello  da tassare in forma “agevolata”?) dall’altro significa anche che la misura non sarà conveniente per chi gode di un reddito più elevato e dunque andrebbe a pagare aliquote marginali più alte.

Se il reddito imponibile viene tassato (Irpef) applicando 5 aliquote marginali (da zero a 15 mila euro l’aliquota è del 23%, tra 15.001 e 28.000 euro l’aliquota è pari al 27%, tra i 28.001 e i 55.000 euro si paga il 38%, tra i 55.001 e i 75.000 euro il 41%, oltre si paga il 43%), sul Tfr si paga una tassazione sostitutiva, in media tra il 23% e il 26% per quanto riguarda il capitale versato a Tfr ed una tassazione separata pari all’11% che colpisce la rivalutazione (“rendita”) del Tfr stesso, per legge pari al 75% dell’inflazione aumentata di un tasso fisso dell’1,5% annuo (attualmente, la rivalutazione potenziale è inferiore all’1,5% dato che l’inflazione a settembre è risultata negativa dello 0,2% su base annua e dello 0,4% rispetto ad agosto).

Il che conferma quanto lo scrivente aveva anticipato qualche giorno fa: la misura rischia di dare un contributo minimo in termini di crescita e tradursi in un ennesimo incremento di tassazione. Se a questo si aggiunge che il governo vorrebbe trovare altri 3,6 miliardi di euro di “coperture” dalla tassazione delle “rendite finanziarie” e che si parla di un incremento dal 12,5% al 20% della tassazione sul risultato di gestione dei fondi pensione, il sospetto che ci si stia vendendo il futuro per cercare di dare una (incerta) scossa al presente si trasforma in una mezza certezza. Un prezzo da pagare per cercare di ripartire?

Personalmente mi pare più una concorrenza (sleale) in termini fiscali tra consumi (tassati al 22% attraverso l'Iva), risparmio gestito (tassato al 20%) e risparmio amministrato dallo stato (attraverso l'Inps nello specifico), ma si trattasse solo di questo potrebbe comunque essere uno scambio su cui ragionare. Purtroppo anche in termini di deficit/Pil strutturale (ossia corretto per il ciclo economico) la manovra di dimostra a malapena espansiva (come spiega efficacemente Mario Seminerio) e sempre che si prendano per buoni i 15 miliardi della “black box” (o se preferite della “dream box”) chiamata spending review su cui non si hanno ad oggi dettagli e che la Ue non consideri l’intervento delle banche, necessario per non far pesare l’anticipo del Tfr in busta paga sulle fragili spalle delle imprese italiane, un incremento del debito pubblico italiano (visto che sarebbe lo stato, tramite l’Inps, a dover garantire tali anticipi). Cosa che rischierebbe di peggiorare nuovamente i già ricordati rapporti deficit/Pil e debito/Pil.

Morale della favola: il governo mostra di aver capito che è importante dichiarare che le tasse debbono essere ridotte per far ripartire la crescita (ed uscire dalla trappola della liquidità) ed è certamente un passo in avanti. La manovra non è ulteriormente pro ciclica, ossia recessiva, come le precedenti nate col solo scopo di rispettare “contabilmente” i criteri di austerità fiscale che Berlino ha imposto a tutta l’Eurozona ed è certamente un altro passo in avanti. Ma se sperate che milioni di lavoratori si mettano in fila davanti ai negozi per far ripartire a pieni giri l’economia tricolore spendendo oggi i soldi delle future pensioni di domani, rischiate di prendere un abbaglio. Perché i consumi ripartono servirebbe certezza del futuro o quanto meno minore incertezza. E una vera riduzione della pressione fiscale complessiva, che non avvenga a scapito del risparmio possibilmente.

Se a questo aggiungete come notano già alcuni (tra cui lo stesso Seminerio) che le “clausole di salvaguardia” già prevedono che se qualcosa andasse storto, in termini di saldi a consuntivo rispetto a quanto preventivato dalla Legge di Stabilità (sulla quale ancora deve intervenire il Parlamento italiano, oltre che la Commissione Ue), inasprimenti di Iva e delle accise sulle benzine, capite bene che di motivi d’ottimismo per le prospettive dell’Italia ad oggi ce ne sono pochi, ma proprio pochi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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