
Questa edizione del Met Gala si intitola Superfine: Tailoring Black Style. È un'indagine sulla cultura e la storia della moda afroamericana, in particolare sul dandismo nero. La relativa mostra del Costume Institute è curata da Monica L. Miller e si ispira al suo libro del 2009 Slaves to Fashion: Black Dandism and the Styling of Black Diasporic Identity. Agli ospiti viene dunque chiesto di tradurre in abiti una fetta di storia, ciascuno a loro modo. È una storia che chiama in causa lo schiavismo, il colonialismo, l'identità della comunità black, il movimento per i diritti civili degli anni Sessanta. E tutto questo nell'era dell'amministrazione di Donald Trump, sotto accusa proprio per la gestione (e la minaccia) a temi come la diversità e l'inclusione. Un report di Human Rights Watch di recente pubblicazione ha denunciato questo clima di oppressione e l'impegno del governo americano contro le misure DEI (diversità, equità e inclusione) verso afroamericani, latinos, disabili, LGBTQIA+, anche nelle scuole.

I co-chairs dell'evento di quest'anno sono l'attore Colman Domingo, il pilota Lewis Hamilton, il rapper A$AP Rocky, il cantante e produttore Pharrell Williams, con la star del basket LeBron James in veste di presidente onorario. Immancabile da 30 anni, la direttrice di Vogue Anna Wintour. Quello che è stato messo in piedi sembra un vero e proprio evento anti-Maga (la filosofia di Trump del "Make America Great Again"). Benché la scelta della mostra e del tema a onor del vero risalgano a ben prima delle elezioni, non si può però dimenticare che proprio la Wintour è stata un'accanita sostenitrice di Hillary Clinton, nonché figura fondamentale nella raccolta fondi per i Democratici, dichiarandosi a favore di Biden ed esprimendosi contro Trump. C'è da aspettarsi la presenza delle più grandi celebrità mondiali, ma è probabile che l'evento abbia una grossa fetta di pubblico anti Trump.

Quale occasione migliore per schierarsi in modo netto. Non sarebbe la prima volta. In passato alcune star hanno approfittato di quel tappeto rosso proprio per esporsi, per dire la propria, dimostrando quanto un abito possa andare oltre una firma. La regista e attrice Lena Waithe nel 2018 ha sfilato con la bandiera LGBTQIA+, Cara Delevingne nel 2021 ha indossato un giubbotto antiproiettile con la scritta "Peg the Patriarchy". Nello stesso anno come dimenticare la deputata Alexandria Ocasio-Cortez col suo abito-manifesto dalla scritta a caratteri cubitali "Tax the Rich".

Stavolta la mostra e il relativo Gala che la inaugura sono una celebrazione dell'uso strategico della moda da parte degli uomini afroamericani nel corso della storia. Il tema non riguarda solo scelte di stile, abiti cuciti di tutto punto, accessori scelti con cura: ha a che fare con il carisma di chi li indossa, col loro modo di essere e di stare al mondo. Il tema evoca deliberatamente idee politiche e storiche. Basti pensare che il termine superfine del titolo non è stato affatto scelto a caso. Come racconta Miller nel suo libro, è preso in prestito dalle memorie di Olaudah Equiano, uno schiavo dell'Africa occidentale che, dopo aver comprato la sua libertà nel 1766, raccontò di aver speso tutti i risparmi "per un abito superfine con cui ballare quando ero libero". Era il simbolo della sua libertà. E proprio in nome di quella libertà i neri hanno riconvertito la loro idea di dandismo.

Nel XVIII secolo gli schiavi neri venivano volontariamente vestiti alla moda dai loro padroni: era un modo per ostentare ricchezza e posizione sociale. Una volta liberi, hanno cercato di reinterpretare quei codici, quelle silhouette e quei lavori sartoriali, ribaltandoli e andando oltre il semplice concetto di abbigliamento elegante, facendone un atteggiamento per distinguersi e imporre la propria unicità, ma anche il concetto di comunità, del far parte di qualcosa di più grande. Se all'inizio quell’abbigliamento era simbolo di sottomissione perché imposto, poi è invece stato tramutato in strumento di resistenza e di autoespressione, sovvertendo la rappresentazione e lo status. La moda per la comunità è diventata un modo per rivendicare dignità ed emancipazione. Ciò che veniva identificato come simbolo di derisione è diventato simbolo di forza, non solo maschile. Anche le donne nere hanno avuto un ruolo e nel suo libro, Miller osserva come l'impronta dell'estetica dandy sia ancora evidente in figure politiche come Kamala Harris o Michelle Obama.

Il tema pone interrogativi su parole chiave del nostro tempo: in fondo la storia è fatta di corsi e ricorsi e ancora sono centrali questioni come l'identità, la rappresentazione, la "razza", il genere, la sessualità. È un momento storico particolare e complesso in cui anche diritti che sembravano dati per certi e per acquisiti, invece vacillano. Nell'attuale panorama politico diviso, far sfilare in passerella il dandismo nero significa fare una dichiarazione. È insieme una rivendicazione e un'affermazione di dignità, significa interrogarsi ancora sull'eterna questione mai risolta di cosa significhi essere visibili pur essendo neri, in America e nel mondo. E questo concetto si può estendere a tutte le cosiddette minoranze, agli ultimi, ai dimenticati, ai derisi, a chi è considerato inferiore e vede dunque minacciata la propria libertà.
