Nicola Legrottaglie: “Dio mi ha salvato, ero paralizzato. Ancora oggi ho la cicatrice sul midollo”

di Maurizio De Santis e Ilaria Mondillo
Dalla prima firma da professionista con il Bari fino agli anni con la Juventus e il Milan, passando per sfide indimenticabili con compagni leggendari come Del Piero, Buffon, Nedved, Montero e Ibrahimovic. Nicola Legrottaglie ha vissuto il calcio in ogni sua sfumatura, dalla gloria alle difficoltà. Ma la sua storia va oltre i trofei e le partite: è la vicenda di un uomo che ha scelto di vivere guidato dai valori, dalla fede e dalla consapevolezza di sé. Nell'intervista a Fanpage.it parla senza filtri, a cuore aperto. E soprattutto pulito.
Se dovessi descrivere chi è stato Nicola Legrottaglie a qualcuno che non ti ha mai visto giocare, da dove partiresti: dal calciatore o dall'uomo?
"Partirei sempre dal bambino. Dal contesto in cui sono nato, perché capire da dove arrivi è una grande leva per costruire il tuo futuro. Racconterei la mia famiglia, la mia quotidianità, le abitudini di un ragazzo cresciuto in un paese di quindicimila persone che, passo dopo passo, ha trovato la sua strada. Prima di tutto sono Nicola figlio, fratello, amico, nipote. Poi viene il calciatore. Perché ciò che porti in campo è solo il riflesso di quello che sei fuori. Il campo, in fondo, è lo specchio della tua vita".
Ti ricordi la prima firma da professionista? E cosa facesti con i primi soldi?
"I primi soldi? Il mio primo pre-contratto fu col Bari, quando passai dalla Primavera alla prima squadra. Era il 1995-1996, il Bari era in Serie A e guadagnavo un milione e centomila lire al mese. Il mio primo acquisto fu un telefonino Microtac Motorola, il primo cellulare con lo sportellino. Ma lo comprai tra virgolette visto che lo pagai a rate… per me era una conquista. Il primo contratto vero da professionista lo firmai con la Pistoiese, in Serie C. Ricordo l’emozione, la gioia, la sensazione di cominciare a vedere concretizzati i sacrifici. Ero felice, ispirato, grato".
Qual è stata la chiamata che ti ha cambiato la vita?
"Quella che ho sentito nel cuore: è stata la mia conversione, la chiamata di Dio. È arrivata senza numero, senza prefisso. Veniva dall’alto. È stata la più bella. Poi, sul piano terreno, c’è la chiamata della Nazionale. Quando mi convocarono la prima volta, ero a Verona: ricordo che avrei voluto gridarlo dal balcone. Una gioia immensa".
Com'è la voce di Dio al telefono?
"È una voce sottile, che non ti spaventa. Ti porta pace, una pace profonda, come un arbitro interiore che ti indica la direzione. Quando sento quella pace, so che devo andare lì. Col tempo impari a riconoscerla, come le pecore riconoscono la voce del pastore. Ti dà libertà, quella vera, quella che il mondo non ti dà".

Hai detto: Nel 2006 sono rinato. Cosa intendevi?
"Avevo iniziato il percorso cattolico con mia madre e, nella tradizione cattolica, ci si battezza da piccoli: sono i genitori a farlo, come modo per dire al figlio ‘noi crediamo'. È semplicemente il modo in cui il cattolicesimo offre una direzione ai propri figli. Non c’è nulla di giusto o sbagliato: è una scelta. Quando poi ho iniziato a frequentare la chiesa evangelica — avevo due anni quando mia madre cominciò ad andarci — lei iniziò a leggere la Bibbia e a fare un percorso più diretto nella Fede. E scoprì che il bambino, anche se viene indirizzato, non può scegliere davvero: non basta che il genitore indichi la strada, serve che il figlio riconosca e prenda consapevolezza del proprio cammino, con libertà e scelta personale. Così io mi sono ribattezzato a 29 anni, quando ho capito in cosa stavo credendo e cosa stavo scegliendo. Per me è stato un modo per dire: prima mi hanno indirizzato loro, oggi decido io. Ho scelto consapevolmente di seguire Dio, perché l’ho conosciuto. Questa è la grande differenza: un percorso di crescita che porta a una consapevolezza più matura".
Hai mai dato consigli legati alla fede a compagni o dirigenti?
"Sì, tante volte, ma sempre in modo naturale. Quando vivi secondo certi principi, quello che condividi nasce spontaneamente. Non ho mai voluto imporre nulla: parlavo solo se mi veniva chiesto. Dicevo ciò che avevo ricevuto, come una macchina che fa più chilometri quando ha il serbatoio pieno. Alcuni accettavano, altri no. Ma sempre nel rispetto reciproco".
C'è stato un allenatore o un dirigente che ti ha ferito, ma poi ti ha fatto crescere?
"Gli strumenti che avevo a vent'anni non sono gli stessi che ho oggi a cinquanta, e infatti a vent'anni non ero in grado di valutare o giudicare davvero ciò che mi accadeva. Per esempio, l'allenatore che ti trattava quasi da schiavo, che ti imponeva le cose senza spiegare, rigido e autoritario: non potevo giudicarlo, lo accettavo semplicemente per quello che era, dovevi rispettarlo, stare zitto. Quel modello di leadership era l'unico che conoscevi, quello che ti veniva mostrato: più ‘padre padrone'; più ‘l’allenatore parla, gli altri ascoltano'; se eri giovane portavi le borse ai più grandi. Era un modo di fare che, per come era intesa la cultura del tempo, veniva praticato anche con intenzioni positive. Oggi però, per fortuna, chi ha voluto evolversi e aggiornarsi ha contribuito a cambiare questo modello. Negli ultimi anni la leadership è diventata qualcosa di diverso: più aperta, più attenta al valore delle persone, meno basata sulla sofferenza come condizione necessaria alla crescita. Il sacrificio esiste ancora, certo, ma viene interpretato in modo diverso, più consapevole e meno punitivo".

Oggi il calciatore è visto come bello, ricco, famoso. Ma da dentro è davvero così?
"È uno stereotipo. Venticinque anni fa non avevamo gli strumenti per crescere personalmente. Non c'erano Internet, corsi online, formazione. Studiavi poco perché ti allenavi tanto. Il calciatore vero è una persona genuina, che fa ciò che ama. Ma è il contesto che lo trasforma, che lo vizia. Quando tutto ti è dovuto, quando non fai la fila alla posta o dal dottore, rischi di perdere il contatto con la realtà. E quando smetti, quando le luci si spengono, capisci quanto quella realtà ti manca. Il calcio è pieno di uomini, non di macchine. E gli uomini hanno bisogno di guide serie, di persone fidate che li aiutino a non perdersi".
Perché secondo te è ancora così difficile parlare di omosessualità nello spogliatoio?
"Perché non si mette al centro la persona. Si parla di scelte, di giudizi, ma non si ascolta il bisogno di libertà di chi vuole esprimersi. Io credo nella libertà: ognuno deve poter dire ciò che è, e gli altri devono poter dire se condividono o no, ma sempre con rispetto. Sia chi ha un orientamento diverso, sia chi non lo condivide: tutti devono accettarsi a vicenda. Solo così si cresce davvero".
E se un tuo compagno ti confidasse la sua omosessualità?
"Lo ascolterei, semplicemente. Io guardo le persone per quello che sono, non per quello che fanno. Parlo spesso in carceri, dove incontro uomini che hanno sbagliato. Non li giudico, cerco di capire chi sono davvero. E così farei con chiunque. Dallo scambio nasce la riflessione, e la riflessione può cambiare una vita. Gesù mi ha insegnato questo: ad amare e rispettare le persone, non a condannarle".
Ti ricordi quando Ibrahimovic ti disse: Nicola, Gesù non ti fa vincere i campionati. Io sì?
"Era una battuta, il suo modo di scherzare. È sempre stato simpatico e con lui ho vissuto momenti davvero belli. A quel punto la mia immagine legata alla fede era ormai conosciuta nel mondo del calcio, e non mi è mai pesato: preferisco essere etichettato come quello che parla di Gesù, piuttosto che come qualcuno che non rispetta certi valori. Non mi sono mai pentito di ciò che ho detto o fatto, e non lo farò. Lui è Ibra, vive a modo suo, io vivo al mio. È vero che mi ha fatto vincere degli scudetti, perché è un fuoriclasse. Ma credo anche che lui abbia vinto perché c'ero anch’io, e perché dietro di me c’era Qualcuno che mi proteggeva. Diamo a Cesare ciò che è di Cesare, ma anche a Dio ciò che è di Dio".

Com’è l'Ibrahimovic che non si vede?
"Spiegare davvero Ibra non è semplice, perché lui va visto dal vivo. Mi ricordo una scena che rende bene l’idea: spesso noi, soprattutto in un ambiente così esposto come il nostro, indossiamo delle maschere. Maschere che servono a proteggerci, magari per il nostro passato o per fragilità che non sappiamo nemmeno di avere. Secondo me, quando Ibra ostenta quel suo modo ‘da comandante', in realtà sta coprendo anche alcune sue debolezze. Con il tempo le ho conosciute, ed è la parte più bella. L'immagine che mi è rimasta impressa è lui a Milanello dopo un allenamento, mentre giocava con i figli: affettuoso, dolce, presente. Vederlo così, con i bambini e con la moglie, ti fa capire chi è davvero. Quello è l’Ibra autentico. Con i compagni, certo, era diverso: più rigido. Quando sbagliavi non te la lasciava passare, ti stuzzicava, ti ‘rompeva' un po'. Ma lo faceva per stimolarti. Per alcuni funzionava, per altri magari no".
Quanto pesa la maglia della Juventus?
"Tanti chili, davvero tanti… quella maglia rappresenta un popolo intero. Ovunque vai trovi juventini, ovunque percepisci un attaccamento incredibile a quei colori. Ricordo perfettamente che, appena uscito dall’ufficio della Juventus dopo aver firmato con la Triade, la mia vita non è stata più la stessa. Da quel momento la gente ti riconosce ovunque, si ricorda di te anche all’estero. Lì ho capito quanto pesa davvero quella maglia, quanta storia e quanta responsabilità porta con sé. Ogni gesto, ogni parola diventa visibile al mondo, non più solo al quartiere o alla città, come accadeva quando ero al Chievo. Tutto si amplifica: ciò che fai, ciò che dici, il modo in cui ti comporti. Diventi un punto di riferimento, e siccome le parole hanno un peso e i gesti in campo muovono emozioni e reazioni, devi stare attento a tutto".
Tra Montero e Chiellini, chi era più “diavolo”?
"Al di là delle battute sul diavolo, si parla soprattutto di personalità. Con Chiellini mi sono trovato benissimo: era il mio opposto, la mia ‘acqua santa'… come si dice. Proprio perché così diversi, ci completavamo alla perfezione. Fuori dal campo parlavamo di temi seri, profondi. In campo bastava uno sguardo per capirci. Io aiutavo lui in certi aspetti, e lui – con la sua forza e la sua presenza – compensava ciò che a me mancava. È stato il compagno più complementare che abbia mai avuto. Montero era un altro mondo. Estroverso, imprevedibile, con una vita tutta sua, ma in campo mi ha mostrato cosa significa trascinare una squadra. Durante le partite era come avere una telecronaca in diretta: ti commentava ogni giocata, ti incoraggiava, analizzava la tua prestazione più della sua. A volte pensavo: Non è possibile che faccia davvero così. Eppure era un leader tecnico straordinario, uno che volevi sempre al tuo fianco".
E poi, ovviamente, non c’erano solo loro…
"Ho condiviso lo spogliatoio con Buffon, Del Piero, Nedved, Camoranesi. Molti mi chiedono com'era giocare con questi campioni. La verità è che quando vivi ogni giorno insieme a loro, smetti di vederli come Del Piero o Buffon: diventano Gigi, German, Alex. Persone, non icone. Con Alex ho condiviso sette anni della mia vita: gioie, dolori, tutto. Per me resta il capitano, ma soprattutto resta Alex, non il personaggio Del Piero. Ognuno di loro aveva un tipo diverso di leadership. In modi diversi, tutti portavano valore alla squadra. E penso di averlo portato anch'io. Perché è vero che si parla sempre dei grandi nomi, ma in quella Juventus oltre a me c'erano anche Tacchinardi, Birindelli, Pessotto… giocatori forse meno celebrati, ma fondamentali per far rendere al massimo i campioni. Ognuno ha un talento da mettere a frutto: il problema nasce solo quando quel talento non lo sfrutti. Ovviamente abbiamo vissuto anche momenti difficili".

Come hai vissuto il periodo di Calciopoli e la Juventus vincente dopo?
"Io non divido le Juve: quella di Calciopoli e quella vincente. Fanno parte della stessa storia. Quando non vinci, impari. Da quella Serie B è nata l’identità che ha portato poi ai nove scudetti consecutivi. Abbiamo messo le fondamenta. Quella Juve, ferita ma viva, ha creato la cultura della rinascita. La squadra li ha vinti perché aveva campioni che sapevano conquistarli sul campo, anche dopo un periodo complicato come quello di Calciopoli. La forza è stata proprio quella: ripartire, dimostrare di valere ciò che si conquista".
Quindi vincere non è l’unica cosa che conta che poi è anche il celebre motto dei bianconeri.
"Il calcio è ciclico: vinci per nove anni, poi ti fermi. L'identità è ciò che resta anche quando non vinci. La Juve è vincente sempre, anche quando arriva terza, anche quando retrocede. L'identità vincente non dipende dal risultato, ma da ciò che sei".
Facciamo un gioco: una riflessione per ogni allenatore avuto in carriera.
"Delneri è stato innovativo: mi ha insegnato cose che nessuno mi aveva mai insegnato. Ranieri, una persona equilibrata. Lascia un profumo, una presenza che ti manca quando non c'è più. Deschamps è un grande osservatore. Parla poco, ma vede tutto. E quando deve darti qualcosa, te la dà. Zaccheroni è uno dei più buoni che abbia mai conosciuto, un uomo alla mano, quasi paterno. Mi ricorda Ancelotti, anche se non l’ho mai avuto. Ciro Ferrara è un amico. Ho giocato con lui e poi mi ha allenato. Forse non aveva ancora l’esperienza, ma la sua umanità era contagiosa. Montella? Lui deve ringraziare me, e io devo ringraziare lui. Era alla prima esperienza, aveva idee avanti anni luce. Ci faceva giocare bene e noi lo abbiamo aiutato a esprimere quel talento".
Invece Allegri?
"Allegri è… allegro. È bravo nella gestione dell’uomo. Sa come avvicinarsi ai giocatori, sa scherzare, stimolare, alleggerire lo spogliatoio. Pochi allenatori sanno gestire i campioni come lui. Quando sono arrivato al Milan, ho visto subito la sua qualità nel creare equilibrio anche in un gruppo pieno di stelle".
Com’era lo spogliatoio del Milan con Cassano?
"Cassano è sempre stato un personaggio che fa discutere, anche quando scherza, ma io gli ho sempre voluto bene. Ho tantissimi aneddoti su di lui… il primo risale a una Juventus–Sampdoria. A fine partita, in dialetto, mi fa: Colì, colì, dammi la maglia, dammi la maglia! L’unica maglia che voglio è la tua, perché quella la faccio pregare ai santi, alla Madonna L’ho guardato, ho riso e gli ho dato la maglia da portare a sua madre. Una scena simpatica, tipica di lui. Poi c’è stato il mio primo giorno al Milan. Sotto la doccia si era creato un gran caos con tutti i brasiliani, parlando di fede e religione. Cassano mi fece una battuta per stuzzicarmi dopo aver letto qualche mia intervista. Io rispondo, lui mi prende un po’ in giro… e all’improvviso arrivano tutti i brasiliani, che essendo credenti prendevano le mie parti contro di lui. Si è scatenato un putiferio: gente che entrava a capire cosa stesse succedendo, discussioni animate, risate".

L’infortunio che poteva cambiarti la vita: cosa ricordi di quel Milan-Lazio 2011 e dello scontro con Kozak?
"Quella caduta è stata brutta. Avevo iniziato a giocare bene, molto bene, e sono convinto che se avessi continuato la mia esperienza al Milan sarebbe andata diversamente. Quando sono caduto e ho riaperto gli occhi, il primo pensiero è stato di paura: non muovevo niente, ero paralizzato. Le gambe e le braccia andavano ognuna per conto proprio, non avevo controllo. E quando ho visto la faccia del medico arrivare con la barella mi sono spaventato ancora di più: era diventato bianco. Mi ha chiesto: ti muovi? E io: No. Lì ho capito che qualcosa di serio era successo. Poi però, dentro di me, si sono affacciate le cose che avevo maturato spiritualmente. Mi sono rasserenato. Ho pensato: Non succederà ciò che sto vedendo, ma ciò che mi è stato promesso. E mi sono fatto forza. Dopo quattro minuti, mentre andavamo in ospedale, ho iniziato a sentire formicolii. Lì ho davvero ringraziato Dio, perché ancora oggi ho una cicatrice sul midollo: c’è stata una lesione vera e propria, che ho scoperto solo tre anni dopo".
Cosa provi a rivedere quelle immagini anche oggi, a distanza di anni?
"Penso sempre alla stessa cosa: Come ho fatto a provare a prendere quella palla di testa che stava a un metro da terra? Non è un gesto che avevo mai fatto. Mi sono abbassato per appoggiarla di testa al mio centrocampista, e proprio in quel momento lui è arrivato correndo e mi ha colpito con il ginocchio. Il collo è andato indietro e lì mi sono fatto male. Kozak si è scusato subito, in campo. Poi non ci siamo più sentiti".
Quale trofeo ti è rimasto più dentro?
"Tra tutti i trofei che ho vinto – dalla Serie C alla Serie B, fino allo scudetto e alla Supercoppa – quello che mi è rimasto più dentro è proprio la Supercoppa. Lo scudetto è un titolo meraviglioso, ma quell’anno avevo giocato troppo poco per sentirlo davvero mio. La Supercoppa, invece, sì: l’ho sentita mia perché, in un certo senso, l’ho decisa io. Al 92’ feci un’incursione in area che nessuno si aspettava: colpii di testa, la palla finì sul palo, il portiere riuscì appena a sfiorarla, e poi Trezeguet la spinse dentro sulla linea. Quel gol nasce da quella mia giocata e da una grande partita di tutta la squadra. Per questo porto quella vittoria nel cuore"
Hai qualche cimelio a cui sei particolarmente legato?
"Non sono mai stato uno che colleziona maglie, scarpini o cose materiali. Devo ringraziare mia madre: ha avuto la lungimiranza di incorniciare tutte le maglie delle squadre in cui ho giocato. Sono lì, appese, come ricordo. Io, invece, tendevo a regalare tutto: delle maglie della Juventus, per esempio, non me n’è rimasta quasi nessuna, ogni volta che me le chiedevano le davo via. Non sono mai stato legato agli oggetti. Sono più legato ai ricordi, alle emozioni, a ciò che mi è rimasto dentro. Le cose materiali prima o poi passano; ciò che ti lascia un’esperienza, invece, resta".

Qual è stato il tuo primo pensiero quando hai smesso di giocare?
"Il primo ricordo del giorno in cui ho appeso le scarpette al chiodo è la consapevolezza. Sapevo esattamente che era il momento di smettere: negli ultimi anni non dormivo più bene, non trovavo più quella forza interiore per continuare. È stata una scelta ponderata, voluta. Nessuno mi ha costretto: ho deciso io. E l’ho fatto in silenzio, senza partite d’addio o celebrazioni. Ho voltato pagina e ho iniziato subito ad allenare”
Se potessi tornare indietro, cambieresti qualcosa della tua carriera?
"Con la maturità di oggi, se tornassi ai miei 18 anni, alcune scelte le farei con più saggezza, meno drastiche. Probabilmente sarei potuto arrivare prima in Serie A. Ma ogni passo, anche quelli più duri, mi ha portato dove sono oggi, quindi non cambierei nulla".
Cosa fai oggi?
"Ho fatto l’allenatore per cinque anni, ho il patentino UEFA Pro. Mi piace, lo sento mio, perché ho vissuto lo spogliatoio, il campo, l’allenamento quotidiano. Poi, due anni fa, ho avuto l’occasione di fare il direttore tecnico alla Sampdoria. È stata un’esperienza bellissima, nata grazie a Radrizzani, un amico vero, che ha creduto in me".
Perché non ti vediamo in TV, Nicola?
"Onestamente non lo so. Forse perché le brave persone in televisione non ci devono andare… Ho fatto ospitate, anche con DAZN, ma alla fine le porte si chiudevano sempre. Non so perché. Forse sbaglio qualcosa, o forse semplicemente non sono adatto al format. Non mi paragono a nessuno, però mi chiedo: perché in Italia si preferisce spesso dare spazio a stranieri che magari conoscono la lingua così così, invece che a chi può parlare direttamente al pubblico con naturalezza? Comunque va bene così: io credo che, se è giusto che arrivi, arriverà. Come in campo: devi solo aspettare la chiamata giusta".
Legrottaglie oggi è anche autore. Il tuo ultimo libro si intitola “12 in campo”, un titolo che racchiude la sua filosofia.
"Racconto ciò che ho imparato in campo e nella vita. che tutto parte dai valori. Il calcio è fatto di persone, e dove ci sono persone ci devono essere principi universali: rispetto, impegno, perdono, amore. Se non conosci i principi, non saprai mai relazionarti davvero. E allora arriveranno solo conflitti, rancori, fallimenti — sul lavoro, in campo o in famiglia. E ho pensato: perché non creare una squadra di valori? Così è nata l’idea dei miei “12 in campo”: una formazione dove ogni ruolo rappresenta un principio. E ogni principio è incarnato da un grande giocatore che lo ha rappresentato nella vita. Per esempio per l’impegno ho scelto Ronaldo. Per il coraggio, Roberto Baggio. Racconto le loro storie, non solo i trofei, ma i momenti di sacrificio".