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Philadelphia 76ers: The Process is over. È il momento di vincere

Dal fallimento dello scorso anno a un inizio di stagione da favola: Philadelphia è finalmente diventata una contender? Più che il record di inizio stagione e la recente vittoria contro i Lakers, a parlare è un ritrovato equilibrio tattico figlio delle sapienti scelte di Daryl Morey. E dalle sabbie mobili degli scorsi anni, a Phila sembra finalmente sbocciato il progetto.
A cura di Luca Mazzella
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Anni e anni di sconfitte, ossessivamente cercate nel nome del tanking selvaggio (in gergo: perdere volutamente per chiudere la stagione con un record negativo e avere maggiori chance di ottenere la possibilità di selezionare i giovani prospetti provenienti dal college e dal resto del mondo, grazie a scelte alte al draft dell'anno successivo), il tutto per accumulare quel talento necessario a riportare in alto una franchigia in crisi di identità dopo l’era Allen Iverson. I 76ers hanno scelto, suscitando non poche polemiche, di fare incetta di giovani talenti e costruire puntando sul miglioramento progressivo e costante negli anni dello young core. Tutto questo è servito?

Perdere, ma per chi?

In realtà, se guardiamo come sono state utilizzate complessivamente queste scelte, non è andata benissimo: dal 2014 al 2017 tre volte la prima chiamata e una terza, tramutate in Joel Embiid, Ben Simmons, Markelle Fultz e Jahill Okafor, hanno consegnato a Philadelphia una sicura superstar, superati i problemi fisici, come il centro camerunese; un giocatore tanto forte quanto discusso per alcuni limiti tecnici come Ben Simmons; un progetto dichiaratamente fallito come Okafor e un ragazzo sfortunato come Fultz. Questi ultimi due, partiti verso altri lidi. Una mezza disfatta.
Finita la fase della semina con risultati soddisfacenti a metà, la franchigia ha puntato su una lenta e progressiva costruzione di un roster che negli anni è cresciuto notevolmente affiancando a giovani di talento giocatori con maggiore esperienza nella lega, passando per un promettente assetto con tiratori come JJ Redick (e il nostro Marco Belinelli come cambio), Dario Saric (con tanto di doppione dalla panchina come il turco Ersan Ilyasova), specialisti difensivi come Covington e naturalmente l’asse Embiid-Simmons, perno del gioco della squadra.
Il mancato raggiungimento dei risultati sperati (nel 2017-18 eliminazione al secondo turno contro Boston per 4-1) ha portato la dirigenza a una nuova rivoluzione più che sanguinosa: dentro la star Jimmy Butler in scadenza dai Minnesota T'Wolves (che avrebbe lasciato la squadra da lì a pochi mesi) e Tobias Harris dai Clippers, fuori tutti comprimari e specialisti per un assetto a 4 star che porta di fatto la squadra a un tiro sul ferro dalla finale di Conference, persa in gara 7 contro Toronto.

Il fallimento 2019-20

Nel leccarsi le ferite per una stagione finita in modo rocambolesco, nell'estate 2019 Philadelphia fa i conti con la voglia di Jimmy Butler di esplorare il mercato e firmare con i Miami Heat, rendendo di fatto vano il sacrificio fatto pochi mesi prima per aggiungerlo al roster. Butler, complice un rapporto non idilliaco con il coaching staff e alcuni compagni, lascia i 76ers a mani vuote dopo il grosso sacrificio per acquistarlo pochi mesi prima. Nel frattempo arrivano Al Horford (firmato con un contratto di 109 milioni per 4 anni) e Josh Richardson, rispettivamente da Boston e Miami. La squadra, tecnicamente, finisce con il palesare ben presto le incompatibilità tra i due big-men del roster, unita all'assenza di tiratori, e l'enigma diventa di impossibile risoluzione per Brett Brown. L'eliminazione che arriva nella bolla di Orlando sancisce il fallimento definitivo del progetto tecnico guidato da Elton Brand (GM della squadra in quel momento ed ex giocatore della squadra) e spinge la proprietà all'ennesimo reset.

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La rivoluzione 2020-21

Dopo tanti, troppi esperimenti mal riusciti, a Philadelphia decidono di fare le cose in grande ripartendo da zero. Esonerato Brett Brown e "depotenziato" Elton Brand, la squadra viene affidata all'ex Clippers Doc Rivers. Nel front-office viene inserita la figura di Daryl Morey, architetto degli Houston Rockets dell'era D'Antoni, laureato al M.I.T. e esperto di analytics, nella qualità di President of Basketball Operations. La mano di Morey si fa subito sentire, con mosse oculate e figlie di un'idea tecnica ben precisa: riportare i Sixers all'assetto che tanto faceva ben sperare prima dell'accelerata rivelatasi poi fallimentare con Jimmy Butler. E allora: dentro Seth Curry, tiratore purissimo reduce dalla miglior stagione della carriera a Dallas; dentro Danny Green, fresco di anello NBA, e dentro Dwight Howard come cambio di Embiid. Al draft la squadra sceglie il talentuoso Tyrese Maxey, che assieme alla rivelazione dello scorso anno Shake Milton rappresenta nelle idee di Morey una pronta iniezione di energia dalla panchina. Con poco margine operativo (vista la complessa situazione contrattuale di tanti giocatori), l'ex GM di Houston compie un autentico miracolo e riporta la squadra a una pallacanestro fatta di spaziature più ampie, tiratori dal perimetro e tanta libertà per Joel Embiid. Che non a caso, ripaga questo nuovo assetto con una stagione finora da MVP. Assieme a lui, torna prepotentemente al centro del villaggio anche Ben Simmons, che con diversi tiratori attorno si esalta (il quintetto oggi tira con il 45% da tre quando innescato da Simmons, la squadra intera col 40%. La percentuale precipita al 29% con lui in panchina) e Tobias Harris si ricorda di essere un ottimo giocatore tornando a macinare punti e ad attaccare il ferro. In poche ma significative mosse il miracolo è compiuto e la vittoria contro i Lakers di pochi giorni fa lascia poco spazio ai dubbi.

Philadelphia non è prima nella Eastern Conference per caso, ma è finalmente diventata una contender.

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