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Quando il 110 e lode non vale più niente, ma conta solo il prestigio dell’Università

Al vaglio del governo c’è l’abolizione del valore legale del titolo di studio. L’obiettivo è dotare le imprese di strumenti migliori del “pezzo di carta” per valutare i candidati all’assunzione. Ma il provvedimento presenta una serie di criticità da non sottovalutare.
A cura di Biagio Chiariello
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Quando il 110 e lode non vale piu niente ma conta solo il prestigio dell Universita

State per laurearvi? Vi mancano pochi esami e puntate al 30 per alzare la vostra media e diventare dottori con un appagante 110 e lode? Lasciate perdere. Vi diplomerete quest'anno e non sapete ancora a quale corso iscriversi? Non importa, quel che conta è il prestigio dell'Università. Sono questi alcune dei punti chiave sul quale si fonda il provvedimento che il Governo Monti discuterà venerdì prossimo in Cdm. L'obbiettivo dell'esecutivo è quello di modificare gli accessi ai concorsi pubblici e dotare le aziende di strumenti migliori rispetto al curriculum formativo, per stabilire le capacità di un candidato all’assunzione. Per esempio, non sarebbe più vincolante la laurea in una specifica disciplina ma risulterebbero vicendevoli tra loro diversi titoli o, anche, importanti le esperienze acquisite nel settore. Sembra chiaro che il governo vada verso l'abolizione del valore legale della laurea, strada peraltro che già in passato avrebbe voluto percorrere l'ex ministro dell’Istruzione, Gelmini.

Addio al valore legale della laurea?

Due le ipotesi di riforma attualmente sul tavolo delle discussioni, ed è facile immaginare che non mancheranno polemiche all’interno dell’opinione pubblica, già scossa dalle provocazioni di Martone sugli sfigati che dilatano i tempi di studio. La prima prevede che il "pezzo di carta" ottenuto dopo anni di studio non abbia più alcun valore.
Non che ora le cose siano assai diverse nel Paese in cui a contare sono le raccomandazioni, come emerso anche da un recente rapporto dell'Eurostat sul mondo del lavoro. A valere sarà dunque il prestigio dell'Università. Un laureato della Sapienza di Roma vale più di uno dell'Università di Palermo. Quindi un 110 e lode conquistato in una facoltà più "semplice" sarà meno apprezzato di un 100 in un ateneo notabile. In realtà non si può negare che un 30 strappato alla Normale di Pisa sia più soddisfacente di un 30 preso a Roma Tre. Ma nella sostanza chi sarà a stabilire la reputazione di una Università?

L’altra possibilità, similmente rivoluzionaria, ma meno devastante dal punto di vista dell'impatto nel settore, prevede l’eliminazione del voto di laurea dal calcolo del punteggio nei concorsi pubblici, in maniera tale da non facilitare chi si laurea in una università meno quotata a svantaggio di chi si è dato da fare in un istituto di fama.

Criticità

Non è difficile immaginare che con un tale abbassamento degli standard, il già traboccante universo dei disoccupati assumerebbe proporzioni apocalittiche, oltre che fomentare il fenomeno galoppante delle "spintarelle". Ma ci sono problemi più tecnici che incomberebbero. Nell'accesso ai concorsi pubblici – salvo le eccezioni di medici ed architetti, dove sono richieste competenze specifiche al settore – il titolo di studio sarà irrilevante: un laureato in lettere equivarrà ad uno in geologia, a meno che non si parli di settori tecnici dove il geologo ha la precedenza. Se l'obiettivo è quello di creare candidati realmente preparati e competenti, in grado di favore la produttività e la crescita dell'Italia, forse il Governo dovrebbe risolvere il problema a monte e non ufficializzare l'esistenza di Università di Serie A e di Serie B. Magari attraverso una giusta riforma del sistema universitario che prema più sugli aspetti pratici, attraverso qualche concreta esperienza sul campo, invece che esami tutti uguali e fini a sé stessi.

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