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Opinioni

Perché per una femminista l’8 marzo è una giornata estenuante

Ci sono tante cose che non sono normali per una donna, dalle mille discriminazioni sul lavoro agli stereotipi opprimenti. Continuare a denunciarle può essere sfiancante. Soprattutto in una giornata come l’8 marzo, quando ci si sente anche un po’ obbligate a farlo. Riconoscerlo, però, è importante per non perdere mai di vista l’obiettivo.
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A cura di Annalisa Girardi
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Come ogni anno, il palinsesto dell'8 marzo viene pervaso da contenuti sulla parità di genere. Articoli che snocciolano i dati sulla violenza contro le donne, lunghi report sulle mille discriminazioni, analisi e commenti che si interrogano su come rendere il nostro angolo di mondo meno diseguale. E per quanto ogni momento che riesce a risvegliare un briciolo di attenzione sui divari di genere sia da sfruttare, per veicolare i giusti messaggi e raccontare quanto ancora ci sia da fare per una piena parità, a volte questa giornata porta con sé anche una buona dose di frustrazione e stizza.

In primis perché sembra oggettivamente un contentino calendarizzato. Soprattutto in una società patriarcale e machista come quella italiana, dove la cultura dello stupro si è trasformata in violenza strutturale, dove la disoccupazione femminile è tra le più alte d'Europa, dove agli stereotipi di genere corrisponde un divario concrete sulle possibilità di autodeterminarsi, l'8 marzo può assumere delle sfaccettature a tratti grottesche. E rischia di perdere la connotazione di lotta con cui è nata questa giornata. Non che ci sia nulla di male nella serata per le donne in discoteca o nel ricevere una mimosa, ma spesso si finisce per annacquare un momento di rivendicazioni importanti, che meriterebbero un'attenzione diversa.

E anche tralasciando gli equivoci sulla finalità della Giornata, per chi si occupa quotidianamente di battaglie di genere l'8 marzo può diventare l'appuntamento inevitabile con la feminist fatigue. La perenne lotta al patriarcato, per quanto giusta e fondamentale, può anche essere sfiancante. Trovarsi a sottolineare sempre le stesse ingiustizie, raccontare le continue prevaricazioni, ribadire costantemente dove sta il problema è faticoso. Soprattuto se il cambiamento sembra sempre troppo lento e se argomenti di questo tipo vengono snaturati per essere impacchettati su misura per eventi come l'8 marzo. Sentirsi obbligate a parlare di congedi parentali, piuttosto che di gender pay gap e di tetti di cristallo in un giorno preciso, sapendo che probabilmente da quello successivo l'attenzione dei più tornerà sotto zero, è estenuante.

Adattare le proprie battaglie a esigenze di calendario (e di mercato!) può sfiancare anche l'attivista più agguerrita. Perché ripetere costantemente che alcune cose non sono normali prosciuga le energie.

E di cose che non sono normali, per una donna, ce ne sono ancora tantissime.

L'ossessione per il corpo delle donne

Non è normale, ad esempio, che i corpi delle donne siano ancora oggetto di decisioni politiche, come quella sull'aborto, prese in gran parte da uomini. Non solo perché tradizionalmente governi e Parlamenti sono stati occupati quasi totalmente da maschi: anche adesso infatti, che la presenza femminile in politica è cresciuta, le tre proposte di legge antiabortiste depositate in Parlamento sono state tutte e tre presentate da uomini. C'è un'ossessione per il corpo e per l'immagine delle donne (che viene costantemente strumentalizzata per giudicarle) estremamente problematica, emblema del tentativo di controllo e dei soprusi che da sempre metà della popolazione mondiale ha dovuto subire.

Le donne, il lavoro, la famiglia

Non è normale poi che una donna in carriera sia un'eccezione e che decidere di non avere figli sia una notizia. Come non è normale che, invece, diventare madri un ostacolo per il proprio lavoro. Dal trinomio donna – lavoro – famiglia emergono gran parte delle discriminazioni e delle disparità che non permettono alle donne di autodeterminarsi ed emanciparsi come meglio credono.

Un rapporto dell'Inapp, l'Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche, ci dice che in Italia dopo la nascita di un figlio quasi una donna su cinque lascia il lavoro. Per troppe donne diventa impossibile conciliare lavoro e cura dei figli. E va a finire che in Italia (lo dicono gli ultimi dati Istat) solo una su due lavora. Il tasso di disoccupazione femminile italiano è tra i più alti in Europa, il che significa che moltissime donne sono economicamente dipendenti dal partner o dalla famiglia: un rapporto che rende complicato uscire da situazioni di abusi e prevaricazioni di ogni genere.

Fonte: Istat
Fonte: Istat

Alla radice di questi dati c'è un problema culturale. In Italia viene ancora considerato come "naturale" che sia la donna a occuparsi della casa e della cura dei figli o dei familiari anziani, che pesi interamente su di lei il lavoro domestico non pagato. Secondo l'ultimo rapporto dell'European institute for gender equality, in Italia l'80% delle donne si dedica alle faccende quotidiane, come spolverare o cucinare, contro l'appena 20% degli uomini. Se continueremo a chiedere solo alle donne di farsi carico di casa e famiglia, ovviamente per loro diventerà impossibile concentrarsi sulla carriera e avere una propria indipendenza economica grazie al lavoro.

Fonte: Eige
Fonte: Eige

Il gender pay gap, un'altra ingiustizia

C'è poi un secondo problema. Cioè che le donne che hanno sì un lavoro devono comunque fare i conti con paghe inferiori rispetto a quelle recepite dai loro colleghi maschi a parità di impiego. Secondo Eurostat in Italia il divario retributivo di genere si attesta attorno al 5%, in favore degli uomini. Un dato migliore della media europea, che però non tiene conto del particolare contesto italiano, che vede appunto uno dei più alti livelli di disoccupazione femminile e un mercato del lavoro profondamente disuguale. Per dirla con parole più semplici, in Italia bisogna anche considerare che, in generale, le donne non arrivano ad occupare le stesse posizioni dei colleghi maschi.

Proprio perché troppo spesso tocca alle donne occuparsi di casa e famiglia, a discapito delle proprie aspirazioni lavorative, gli avanzamenti di carriera sono ancora una privilegio degli uomini. Anche la normativa sui congedi parentali pesa su questi divari, stabilendo che alla nascita di un figlio una donna rimanga a casa almeno cinque mesi, contro gli appena 10 giorni a cui hanno diritto gli uomini.

Fonte: Eurostat
Fonte: Eurostat

Questo lo sottolinea anche AlmaLaurea in un'analisi sulle differenze a cui vanno incontro laureati e laureate nel momento in cui entrano nel mercato del lavoro. In media sono gli uomini ad occupare le professioni di alto livello, ad avere gli incarichi dirigenziali o a essere a capo di un'impresa, nonostante le donne "dimostrano migliori performance pre-universitarie e universitarie" e in generale ottengano più titoli di studio. Il report sottolinea però come a un maggiore impegno accademico non siano consequenziali migliori livelli occupazionali. Anzi, tutto il contrario: per gli uomini dopo la laurea è più facile trovare lavoro e a circa cinque anni dopo sono mediamente pagati il 20% in più delle colleghe.

Linguaggi e stereotipi, perché non sono problemi marginali

Ci sono anche tante altre cose che non sono normali. Quando Giorgia Meloni ha ricevuto l'incarico di formare il nuovo governo dopo le elezioni si è fatta tanta ironia sul fatto che scegliesse di farsi chiamare "il presidente del Consiglio", invece che "la presidente del Consiglio", che sarebbe la forma grammaticalmente corretta. Dietro le tante battute sprezzanti fatte verso chi sottolineava l'assurdità di quella scelta, cioè che la prima donna a ricoprire tale incarico si facesse chiamare al maschile, c'è tutta l'incomprensione del valore di un linguaggio inclusivo.

Le parole che scegliamo di usare sono strettamente interconnesse con la nostra visione del mondo e la lingua italiana (o meglio, l'utilizzo che ne facciamo) spesso porta con sé stereotipi di genere opprimenti, che spesso ancora pretendono di definire le donne. La scelta del maschile racchiude in sé decenni di sottorappresentazione delle donne in politica, ai vertici decisionali e nelle stanze del potere, e va raccontata per quello che è: l'espressione di un immaginario ancorato a valori patriarcali che l'Italia ancora fatica a scrollarsi di dosso.

Violenza di genere e cultura del possesso

E infine oggi, come ogni 8 marzo, ci troviamo a ribadire come non sia normali la cultura del possesso e della prevaricazione. Che si traduce poi in una violenza di genere divenuta strutturale nel Paese. Il ministero dell'Interno nella sua piattaforma sulla violenza contro le donne per l'ennesimo anno di fila ha registrato un aumento dei femminicidi. "Negli ultimi quattro anni le vittime di genere femminile hanno, purtroppo, fatto registrare un incremento. In tale contesto è poi significativa l’incidenza delle donne uccise in ambito familiare e affettivo, in costante crescita nel quadriennio", si legge nel report. Non solo: nel 2022 ci sono state anche più violenze sessuali. E probabilmente sarà così anche il prossimo anno, se non inizieremo a trattare il fenomeno partendo dalle sue radici sociali e culturali.

Non sono cose normali, continueremo a ripeterlo

Abbiamo fatto un lungo elenco, dalle violenze alle discriminazioni, che non sono normali. Ma continuare a ripeterlo, temendo di farlo perennemente o senza vedere dei reali cambiamenti, può diventare estenuante. E anche riconoscerlo, soprattutto in una giornata come oggi, è importante per non perdere mai di vista l'obiettivo. Quello di costruire una società più giusta e paritaria per tutte le donne.

Finché sarà necessario, nonostante stanchezza e frustrazioni, continueremo a farlo.

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A Fanpage.it sono vice capoarea della sezione Politica. Mi appassiona scrivere di battaglie di genere e lotta alle diseguaglianze. Dalla redazione romana, provo a raccontare la quotidianità politica di sempre con parole nuove.
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